Recensioni - Opera

Conquista il Macbeth essenziale e simbolico in scena a Busseto

Al Teatro Verdi la versione fiorentina dell'opera verdiana con la regia di Manuel Renga

“Brevità e sublimità”. A raccomandarle è lo stesso Verdi, ossessionato dall’inseguire quella nota fantasmagorica e allucinata che farà di Macbeth una straordinaria cuspide nella sua traiettoria creativa, già portatrice in sé di quell’incisività mordace, e al tempo di quelle sorprendenti trascolorazioni, che si ritroveranno appieno negli esiti della maturità. Secondo titolo in cartellone al Festival Verdi 2025, qui proposto nella prima versione – quella del 1847, ancora stesa con pennino intinto nella maniera pre-risorgimentale – il dramma mutuato da Shakespeare ha avuto lo scorso 27 settembre la sua trionfale Prima nella bomboniera del Teatro di Busseto, dove rimarrà per altre tre recite, il 4, 9 e 17 ottobre.

Pochi, pochissimi posti rimasti a disposizione, ma vale la pena provare ad aggiudicarseli, perché ad attendere lo spettatore è una lezione di teatro d’opera. Per economia di mezzi, efficacia di resa, coraggio. La regia di Manuel Renga, già firmatario di un luminoso Falstaff, è ancora una volta felice attestazione di come less sia more; la Scozia è affidata ad un cielo fosco, che non accenna a vedere giorno, e a lacerti di brughiera, dove creature nere avvolte in scialli - streghe, parche, megere - nascondono un cranio per poi filare, con fili infiniti, le grandi foglie in cui è scritto il destino degli uomini. E il castello è uno spazio fatto di nulla. Solo la Lady – una Marily Santoro che con merito porta a casa la proibitiva sfida, non senza qualche affanno nei momenti culminanti – si stacca da quel grigiore. La sua “Vieni, t’affretta” viene pronunciata di fronte ad un altare votivo, in una stanza così bianca da abbagliare. La lettera della promessa del marito diventa patto di sangue, conficcato nell’altarino con lo stesso coltello con cui re Duncan sarà assassinato. Il suo corpo, poi, diventerà ostensione della morte, con il cadavere nudo, su un tavolaccio da anatomia; un groviglio di carne e di nervi, come in una tela di Schiele. Compiuto il delitto, le mani dei coniugi porteranno per sempre la macchia non del rosso del sangue ma di un nero di pece. Il segno della colpa.

Macbeth qui ha la voce, la presenza e l’intelligenza musicale di Vito Priante, antieroe tormentato e fragile, perfetto nel dolcevita nero da esistenzialista. Accanto a lui, in una gara di bravura, c’è il Banco brunito ed intimamente eroico di Adolfo Corrado. Prezioso anche l’apporto di Melissa d’Ottavi, nei panni della dama della Lady, e di Matteo Roma, Macduff dal piglio sanguigno e aristocratico. In buca, Francesco Lanzillotta imprime una conduzione stringata e febbrile, sobria e appassionata, spronando ai fianchi la sparuta quanto efficace compagine dell’Orchestra Giovanile Italiana, una manciata di elementi chiamati a restituire il graffio, il respiro, la tinta di un’opera tra le più ermetiche e visionarie del Maestro. Applausi entusiasti anche al solito coro del Regio, preparato da Martino Faggiani, per questo gioiello incastonato nella programmazione del Festival.