L’opera buffa con caffettiere e tostapane per il regista Roberto Catalano
Approda al Teatro Filarmonico di Verona, per la Stagione d’Opera invernale della Fondazione Arena, “Il Turco in Italia”, opera buffa di Gioachino Rossini su libretto di Felice Romani. Roberto Catalano ne guida la regia, assistito per le scene da Guido Buganza e per i costumi da Ilaria Ariemme. Lo spettacolo viene ripreso a Verona dopo il debutto al Teatro Sociale di Rovigo che lo ha prodotto.
Regia simpatica e divertente quella di Roberto Catalano, che ambienta la vicenda, di per sé già evanescente, in una non meglio precisata modernità, in cui il consumismo sfrenato la fa da padrone, tanto che tutti i personaggi, ma in particolare la volitiva Fiorilla, sono presi dalla smania del possesso di beni materiali che si declinano in elettrodomestici di ogni tipo, profumi e consimili. Per Catalano e per Guido Buganza, autore di scene semplici con ampio utilizzo di luci a vista, il consumismo ha il colore del giallo: gialli tutti gli oggetti, gialli la maggior parte dei costumi, gialli gli accessori. I costumi vanno di conseguenza. Il colpo d’occhio è sempre piacevole, richiama gli anni cinquanta del novecento e strizza l’occhio alle pin up. Iconica la caffettiera gialla, che ritorna costantemente durante lo spettacolo. Chissà cosa mai vorrà significare?
La regia organizza il tutto a dovere, mutua qualche bella trovata dalle parole del libretto e nel finale ci infila un risvolto di riflessione: con Fiorilla che, spogliatasi degli abiti gialli per tornare al nero, si accorge di essere andata un po’ troppo oltre. Ma è un peccatuccio veniale, presto perdonato. Il Turco Selim è in nero con tanto di Fez, quasi a dire che i barbari esotici presi in giro da Rossini forse sono meglio di noi. Le solite banalità insomma, ma ben condite, correttamente apparecchiate, servite in bell’ordine e con un galateo intriso di precisione e cura.
La trama di Rossini e Romani è di somma e felice inconsistenza, tanto da far sembrare Il Barbiere di Siviglia un capolavoro di drammaturgia. Vi è l’inserimento metateatrale del “Poeta” in scena, ovviamente incaricato di verseggiare un’opera buffa, ma questo non cambia molto le carte in tavolo; se non fornire quel pizzico ulteriore di evanescenza, quel gioco teatrale anti mimetico che tiene insieme una trama ben sfilacciata.
La musica è bella, ma certo non fra le più ispirate del pesarese. Singolare notare come la presenza in scena del poeta, e di conseguenza lo straniamento che dovrebbe derivare dal gioco del teatro nel teatro, restano semplicemente un espediente farsesco. Non vi è mai metafora in Rossini, la superficie, levigata e piacevole, è quello che conta. Ben altri e più profondi risvolti avranno le incursioni meta teatrali nel novecento operistico: basti pensare all’Arianna a Nasso di Richard Strauss.
La compagnia di canto fa il suo. Certo di cantanti comici ne non esistono più, il teatro di prosa è sconosciuto agli interpreti e la felice commistione fra cantato e recitato, che era la cifra vincente di questi spettacoli, non si riesce più ad ottenere. Detto questo tutti se la cavano più che egregiamente.
A cominciare dai due bassi buffi Carlo Lepore e Fabio Previati, rispettivamente il Turco Selim e Don Geronio, che convincono per voce piena e buona musicalità. Sara Blanch è una Fiorilla che ricorda a tratti “Vita da Strega”, ha bella voce e spigliatezza scenica.
Michele Patti è un Poeta svagato e gaglioffo, sempre con la sigaretta in mano. Ha dalla sua un timbro accattivante e usa la voce in modo espressivo. Dave Monaco canta bene, impersona un Don Narciso galante e sopra le righe. Completano degnamente Marianna Mappa, Zaida, e Matteo Macchioni, Albazar.
Lu Jia dirige correttamente, forse anche troppo. Il coro si difende bene.
La serata non è comica come dovrebbe essere, ma piacevole e leggera. Il pubblico nel finale applaude con convinzione.
Raffaello Malesci (Mercoledì 19 Novembre 2025)