La messa in scena si conferma essere un grande spettacolo con innumerevoli rimandi simbolici. Ottima la compagnia di canto in cui spiccano Eyvazov, Margaine e Mimica
Continuano le repliche di Aida nell’estate veronese con la sontuosa e sfavillante messa in scena di Stefano Poda, che firma regia, scene, costumi, luci e coreografie.
L’artista trentino crea uno spettacolo sfavillante, grandioso, contemporaneo. Oltre a quanto sottolineato nella recensione della scorsa estate, una seconda visione permette di apprezzare ancora meglio il denso lavoro simbolico dell’artista, sempre in stretto connubio con il libretto e la musica.
È un Aida corporea quella di Poda, in cui i mimi e i ballerini creano una drammaturgia fisica non strettamente mimetica, ma evocativa di fatti e situazioni. La base concettuale è antropologica, con la mano onnipresente sulla scena: come gigantesca macchina meccanica e come simbolo utilizzato dai vari gruppi di potere contrapposti nella drammaturgia dell’opera.
La mano è l’archetipo dell’umano, la sua volontà di possesso, il mezzo per tenere, ma anche la capacità di lasciare. Potere e possesso dunque. Potere è il dominio sui vinti, gli etiopi mostrati come corpi nudi e massacrati, sempre costretti a vivere nella terra, schiacciati, dilaniati, usati. Possesso è anche l’amore visto come prevaricazione, anelito erotico che gioca con l’amato come con un pupazzo, desiderio che opprime, amore che è guerra, dominio sessuale e psicologico. Mani ovunque dunque, mani aperte e contorte, mani chiuse a pugno, mani che liberano, ma più spesso mani che opprimono.
E poi ci sono i corpi dei mimi, immagine vivente dei sentimenti, resurrezioni mentali rese vive dalla musica di Verdi, che viene spiegata e interpretata in un travaglio corporeo che trascende la coreografia per diventare vero teatro in movimento, espressione corporea degli aneliti dei personaggi e dei loro sentimenti.
Il potere è sempre tirannico, anche quando cerca l’amore, così il secondo atto si conclude con Aida che travolge il suo popolo inseguita da Radames. I due si amano, ma il potere delle loro dinastie, il potere che è in loro, la loro sofferenza, travolge sempre gli ultimi, gli umili, che non possono che ritmicamente soccombere al loro passaggio. Semplice e geniale.
Sempre all’altezza i cast proposti, con nomi di grande richiamo che assicurano un ottimo risultato ad ogni serata in arena.
In questa serata spiccava il Radames di Yusif Eyvazov. Il tenore azero ha ormai raggiunto la piena maturità artistica e incanta regalandoci un personaggio spavaldo e sicuro, dalla decisa presenza scenica. Il canto è sonoro, sempre sul fiato, con acuti turgidi e spavaldi. Una grande prova per lui.
Non da meno l’Amneris trascinante di Clementine Margaine. Il mezzosoprano francese riempie con facilità la cavea dell’arena grazie ad una voce salda e timbrata, che svetta negli acuti senza perdere di sonorità nelle note profonde. L’artista è stata molto applaudita nel finale.
Ottimo anche il Re di Marko Mimica. Voce imponente da vero basso profondo, fraseggio scolpito, accenti stagliati e suoni rotondi e calibrati. Un Re di vero lusso. Igor Golovatenko staglia un Amonasro di ampio volume con acuti prolungati e tenuti con spavalderia. Un canto muscolare il suo, molto adatto all’Arena, a cui forse è mancata qualche raffinatezza.
Aida era la veterana ed esperta Maria Josè Siri, grande professionista che non sembrava essere “in serata”, ma ha portato a casa la recita con precisione e sicurezza, faticando però ad emergere accanto a due leoni come Eyvazov e la Margaine.
Rafal Siwek era un Ramfis senza infamia e senza lode. Sorprendente il messaggero di Riccardo Rados, appropriata la sacerdotessa di Francesca Maionchi.
Non convince del tutto la direzione di Alvise Casellati, che stacca tempi troppo rilassati e fatica non poco a tenere sotto controllo l’ampia orchestra e il rapporto con il palcoscenico.
Convinto successo nel finale per tutti gli interpreti.
Raffaello Malesci (Domenica 7 Luglio 2024)