Recensioni - Opera

Cremona: Il Ponchielli inaugura con una Carmen scarna e graffiante

Essenziale e scabro l'allestimento firmato da Stefano Vizioli. Alterno l'aspetto musicale.

Una nuvola grigia che inizia a danzare su un fondale che più nero non si potrebbe. È fumo. Quello dei sigari che le belle operare rollano ogni giorno, prima di lasciare accaldate e discinte la fabbrica; quello dei sogni: vaghi, vacui, vani. E quello delle parole, leggere e bugiarde, sortilegi da cui diffidare. In questo mondo di caserme scrostate, ferite da bombardamenti che ne hanno squarciato le pance, con giovani soldati che ammazzano la noia giocando pigramente a palla, l’amore è creatura fugace. Troppo libera per essere imbrigliata, troppo audace per farsi addomesticare. L’amore osa e vola, a costo di venir colpito a morte. Il responso delle carte non perdona. Traccia la strada.

Al Ponchielli di Cremona, dove il primo titolo della Stagione lirica dava anche l’occasione di testare le nuove poltrone della platea, Carmen di Bizet portava la firma acuta di Stefano Vizioli: scarna, graffiante, spogliata di ogni retorico folklore fino a trovarne la carne nuda, dolorosa, nel bianco e nero di una pellicola neorealista, nelle geometrie di spazi asfittici – caserme, prigioni, sperduti cimiteri di montagna – disegnati da Emanuele Sinisi ed esaltati, nel loro intimo squallore, dalle luci di Vincenzo Raponi, nei costumi di Anna Maria Heinreich che ben dicono di come la sensualità sia un lampo dello sguardo, più che gioco di trasparenze o di scollature. Nella sua fisicità importante, piuttosto impacciata nelle movenze, la Carmen di Emilia Rukavina – ancora in difesa nell’iniziale Habanera, ma poi via via sempre più aderente al personaggio - custodiva tutta la sua indomita forza seduttiva nel canto, nell’oro brunito di una voce carica di pianto, già presaga, già convintamente pronta ad immolarsi, come il toro nell’arena. Straordinaria, da questo punto di vista, la scena finale, con lei ferma, contro il muro di una via deserta, a ricevere i colpi mortali, bersaglio designato al centro di un manifesto che invita alla corrida, mentre giungono e voci della folla esultante ad Escamillo.

Lui, il don José squillante e sfaccettato di Joseph Dadah, magnifico nella struggente La fleur que tu m’avais jétée, conduceva passo per passo nel gorgo oscuro del suo cuore; nello smarrimento del coup de foudre iniziale, nel tormento della diserzione, nel tradimento delle aspettative di chi l’ama, fino al gesto finale. Compiuto col fumo negli occhi, con la disperazione dell’animale furioso, colpito dalle frecce del torero. Solo il palcoscenico sa farci per un attimo provare pietà per un femminicida. Bizet avvolge di tragica compassione il destino di quest’uomo, così come avvolge quello di Carmen e di Micaela, un’Alessia Merepeza dagli accenti nobili e accorati sebbene in affanno nei tratti salienti. Non giudica. Dipinge.

E, quanto a colori, era la tinta a mancare, sin dall’Ouverture– che già tutto dice e tutto anticipa –, nella direzione piuttosto statica ed esitante di Sergio Alapont. Il febbrile, il torbido, il ferocemente, irriducibilmente nostalgico, erano colori solo accennati nella buca dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, così come piuttosto ovattata era la prova del coro OperaLombardia, messo in ombra dagli strepitosi Piccoli Musici di Casazza, preparati da Mario Mora. Attori di razza e interpreti consumati, dentro ogni nota con la disarmante naturalezza dei loro pochi anni. Applausi generosi e meritati anche alla solida eleganza dell’Escamillo, ben tratteggiato da un puntualissimo Pablo Ruiz, e ai comprimari: il Moralès di Matteo Torcaso e le squisite Mercédès di Aoxue Zhu e Frasquita di Soraya Méncid. Il veleno del fiore di Carmen non sbaglia un colpo. Si esce da teatro e si piange.