Al Ponchielli debutta un nuovo allestimento della terza opera verdiana cupo e tragico
Quello immaginato da Federico Grazzini nella prima tappa del tour lombardo di Nabucco, al Ponchielli di Cremona lo scorso fine settimana – in realtà, un’appendice postuma sarà a Lucca, a gennaio – è un mondo il giorno dopo l’apocalisse. Un regno dei morti in cui tutto è macerie, fumo, offesa. In un non luogo e in un non tempo che troppo assomiglia a molti luoghi di questo nostro tempo insanguinato, nel grigiore che pervade il cielo e lo rende dello stesso colore della terra, si aggirano neri soldati come automi, tutti maschere e tute futuristiche. Presidiano una terra di nessuno, si accaniscono su poveri inermi sfuggiti al massacro. Denudano una donna, rapiscono una bambina, legittimati dal potere di cui sono braccio armato.
La Sinfonia d’apertura, esaltata dal bel gioco di luci a firma di Giuseppe di Iorio, già disegna il perimetro di una visione chiaroscurale che scardina la collocazione storica della vicenda e la sospende in un’ambiguità spaziotemporale in cui l’assenza di riferimenti non è sottrazione ma laico, universale messaggio, accorato grido ad una possibile comune redenzione, alla venuta di un giorno nuovo in cui la riconciliazione sia possibile. I costumi di Anna Bonomelli sembrano affiorare dalla pece: il popolo d’Israele, lacero e afflitto, attende la propria sorte in gabbie metalliche, mentre è costretto a cantare inni all’usurpatore. I Babilonesi, a partire da Abigaille – una Kristina Kolar potente nell’emissione ma non omogenea nel cambio di registro e in più momenti in evidente affanno rispetto all’improba parte – sfoggiano la loro protervia in abiti militareschi, vagamente nazisti, che ne strizzano le forme. Fa eccezione Nabucco - un Angelo Veccia sempre magnifico, a dispetto di un suono a tratti coperto e di un vibrato fin troppo generoso, nel cesellare frasi e accenti, nello scolpire coi minimi gesti, ancor prima che con la fine duttilità dello strumento vocale, la parola scenica verdiana - la cui conversione, qui concepita nel suo senso letterale, ancor prima che religioso, viene esplicitata con la spoliazione dei suoi emblemi regali a favore di miseri brandelli insanguinati.
Nelle scene d’insieme in cui le masse corali, piuttosto opache nella resa esecutiva, si muovono con macchinosa affettazione, lui si aggira smarrito, vinto tra i vinti. Non lo sa, ma è già uno di loro. Com’è una di loro Fenena, un’intensa Mara Gaudenzi dal timbro brunito e morbido, contrappuntata dall’esuberante Ismaele di Marco Miglietta. Statuario, poi, lo Zaccaria vellutato e autorevole, di Peter Martinčič, ben proiettato in ogni zona della sua ampia tessitura. La sua è pura voce di preghiera e di profezia. Corretta quanto misurata e asciutta, tanto da sconfinare nel pallore – di colori, di passo, di mordente - la conduzione di Valerio Galli alla testa dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali. Il prossimo fine settimana si replica al Grande di Brescia.