Recensioni - Opera

Delitti di famiglia 45 anni dopo

Interessante riproposta in chiave teatrale de “I pugni in tasca” di Bellocchio al Teatro Sociale

A circa 45 anni di distanza Bellocchio ha deciso di riprendere questa storia e di riadattarla per il teatro, affidandone però la regia a Stefania De Santis, e l’operazione ha dimostrato, nella replica cui abbiamo assistito al Teatro Sociale all’interno della stagione del CTB,  che il testo ha mantenuto pressoché inalterata la sua attualità e la sua presa sul pubblico. Le atmosfere forse non sono sempre in grado di eguagliare quelle della pellicola originale, d’altronde i capolavori sono irripetibili ed è giusto che sia così, però, vista nella sua autonomia, anche questa versione teatrale può vantare i suoi motivi di interesse.
La regista, grazie alla collaborazione con lo scenografo Daniele Spisa, riesce a creare uno spazio claustrofobico ed inquietante, in cui gli ambienti si fondono gli uni negli altri grazie ad un gioco di praticabili e sul cui fondale si staglia una stilizzazione di quel bosco che nel film circonda (ed isola dal resto del mondo) la casa all’interno della quale si compie la vicenda.
 La famiglia qui rappresentata è un coacervo di tensioni,  frustrazioni e rancori che condurranno ad un esito che per molti versi appare scontato. Forse il paragone è azzardato, ma l’impressione avuta è che la serie di omicidi perpetrati da Alessandro abbia per certi versi la stessa violenza bestiale e liberatoria di quelli dell’Orestea di Eschilo.
Certo i tempi sono cambiati rispetto all’esordio cinematografico; probabilmente negli anni ’60 non c’era questa assuefazione mista a morbosa ricerca di spettacolarizzazione nei confronti delle stragi familiari, che al contrario caratterizza la nostra società. Tuttavia l’impatto è ancora molto forte, soprattutto in virtù del fatto che la violenza qui rappresentata non è solo quella fisica dei delitti, ma anche quella psicologica dei conflitti interpersonali e della totale assenza d’amore.
Figura emblematica della famiglia è l’insopportabile madre, efficacemente interpretata da Aglaia Mora, che, attraverso la sua cecità, con apparente lievità ricatta i figli e li inchioda alla loro realtà. Figli che, ognuno a suo modo, sono rappresentazioni di fallimento. Fabrizio Rongione, tratteggia un Augusto contraddittorio: apparentemente sicuro e responsabile nel ruolo di capofamiglia, ma allo stesso tempo uomo mediocre, incapace di instaurare una relazione sentimentale per lui soddisfacente, incapace anche come amministratore dei beni di famiglia ed in cuor suo desideroso della morte di tutti i parenti.
Giovanni Calcagno, il migliore dell’ensemble, interpreta con grande credibilità il disturbo mentale di Leone, creando un personaggio la cui rabbia nasce dalla disperata necessità di affetto che solo la sorella Giulia in parte gli può dare. Ambra Angiolini nel ruolo di Giulia si impegna, e riesce a trovare degli accenti interessanti nel tratteggiare questa figura apparentemente svagata ma allo stesso tempo profondamente inquieta. Quello che le manca forse è ancora quella dimestichezza e quella continuità con il palcoscenico teatrale che contribuiscano a dare fluidità ad una serie di spunti interessanti ma non compiuti. Pier Giorgio Bellocchio nel ruolo di Ale ne fa emergere la rabbiosa lucida follia, trascinandoci all’interno del suo disturbo mentale.
Eleganti i costumi di Giorgio Armani, efficaci e ben dosate le musiche di Verdi – Morricone.
Al termine applausi convinti da parte di un teatro quasi esaurito.

Davide Cornacchione 30 marzo 2011


“La famiglia è ariosa come una camera a gas”, si diceva a metà degli anni ’60, nel periodo in cui iniziava a soffiare quel vento della rivoluzione che porterà nel ’68 al sovvertimento delle ideologie reazionarie e borghesi. Ed è proprio in quegli anni, per la precisione nel 1965, che Marco Bellocchio gira il suo primo film: “I pugni in tasca”, feroce contestazione contro la famiglia borghese, ma anche contro la religione e la società  in genere.