Recensioni - Opera

Ernani alla Fenice: luci e ombre della chiarezza

Regia di Andrea Bernard

Chi ha i capelli bianchi (qualche, tanti o pochi non indaghiamo) ricorda Massimo Catalano, trombettista stralunato del programma televisivo Quelli della notte. Ebbene, se avesse assistito – o meglio potuto assistere all’Ernani messo in scena alla Fenice, con gran dispiegamento di mezzi, si sarebbe pubblicamente chiesto se era meglio rappresentare un’opera portando sulla scena il complesso mondo interiore del regista e lasciare perplesso più di uno spettatore oppure rinunciare a svelare completamente la trasposizione ermetica per immedesimarsi nei panni del compositore. Quello andato in scena nel marzo scorso alla “casa madre” Fenice è stato un nobile tentativo di far parlare un dramma romantico alle donne e agli uomini del terzo millennio, con qualche prevedibile ed inevitabile sacrificio.

Uno sforzo per conferire linearità alla storia è stato il video iniziale che ha presentato Ernani non ancora adolescente assistere alla sepoltura del padre. Il cumulo di terra – tomba e il guerriero dalle sembianze angeliche sono apparsi più volte nel corso dell’opera, sottolineando il destino di morte che aleggia sul protagonista. Peccato non aver fatto leva sullo stesso spunto in video almeno nelle battute finali. Resta il pregio di una Spagna del Cinquecento che resta tale, con le architetture stilizzate, un po’ troppo oniriche quelle dell’ultimo atto, e con i costumi monocromatici dalle valenze simboliche: rosso-passione (tonalità arancio per Elvira innamorata, rosso per il primo ed inutilizzato vestito da sposa, molto spoiler la sottogonna nera con piume in evidenza del secondo), giallo regale la giubba di re Carlo divenuto magnanimo aiutante, unico inspiegabile dettaglio gli occhiali fluo della nutrice Giovanna. Giustificabile la scelta controcorrente (o contro tradizione) della scena finale, un po’ meno le improbabili maschere da Carnevale di Tricarico della festa di nozze.

Ai tempi in cui l’Ernani era stato musicato, i compositori adattavano lo spartito alla vocalità dei cantanti che avevano a disposizione per la prima. E Verdi già da giovane pretendeva di dire la sua sugli interpreti. Sarebbe stato certamente soddisfatto del Silva di Michele Pertusi, che per presenza scenica e qualità vocali ha dato corpo eccezionale all’eroe negativo Silva, primo destinatario, a buon diritto, dell’apprezzamento del pubblico. Non è stato altrettanto convincente Ernesto Petti nel ruolo di Don Carlos, non tanto per qualche sbavatura, quanto per un certo impaccio sulle scene, a meno che non sia stata anch’essa una scelta, quella di presentare le contraddizioni del potere attraverso la difficoltà di portarne il peso. Anastasia Bartoli, applaudita anch’essa entusiasticamente dal pubblico in sala, ha creato una Elvira cupa, dark, se ci è permesso di attingere all’immaginario contemporaneo, certamente riuscita, a cui però è mancata la sfumatura della dolcezza nella passione. Premiato dal pubblico solo a fine recita Piero Pretti nel ruolo di Ernani, che pure ha sostenuto la parte con rigore. La lettura verdiana di Riccardo Frizza ha privilegiato la rapidità, gli ottoni e le grancasse, portando con sé tutte le contraddizioni di un lavoro di un artista in formazione. Il coro, diretto da Alfonso Caiani, ha reso degno omaggio ai predecessori che quasi due secoli fa avevano intonato quel neppure troppo velatamente patriottico Si ridesti il leon di Castiglia contribuendo a decretare quasi due secoli fa il successo di un capolavoro giovanile (attenzione all’aggettivo). Il pubblico, tra abiti da sera in lamé e scarpe da trekking, ha assicurato un successo trasversale pur nella diversità di approcci.