Recensioni - Opera

Falstaff spigliato e vitale conquista Busseto

l'ultimo titolo verdiano in un divertente e brioso allestimento chiude il Festival Verdi

È a Busseto che pulsa il cuore di Verdi, ed è là, nella placida provincia, che l’edizione 2023 del Festival mette a segno il suo colpo più bello: un Falstaff miniaturizzato, tascabile, nello scrigno bomboniera del Teatro intitolato al Maestro, ma soprattutto nella singolare versione per ensemble confezionata per l’occasione da Alessandro Palumbo, nella duplice veste anche di Maestro concertatore e direttore.

Bastano un quintetto d’archi, una manciata di fiati e un pianoforte per risvegliare, dalla rutilante partitura dell’ultima creatura verdiana, l’essenza multiforme e contrastante del suo sapore: la spiritosa commedia degli equivoci che un Boito in stato di grazia mutua e rigenera da Shakespeare, la (neanche troppo) dissimulata amarezza per un’esistenza ormai giunta alla sua fase calante, l’incombente, drammatico senso di dissoluzione e di vanità del tutto che avvolge con la sua insinuante patina l’intero corso degli eventi, la leggerezza con cui beffati e beffatori, dopo aver fatto sul serio, sanno riconciliarsi e rimettere la palla al centro del campo, pronti ad un altro tempo dell’eterna partita della vita. Paradossalmente, la nuda tela strumentale ordita dal giovane direttore milanese, anziché deprivare la resa, sembrava al contrario esaltare quell’inesauribile caleidoscopio di invenzione timbrica, armonica, effettistica che abita nei tre atti di Falstaff, conferendo al prodotto finale una forza e un’intensità su cui, lo confessiamo, pochi di noi avrebbero scommesso. Anzi, proprio il sottile velo strumentale era garanzia di un ascolto che era insieme puro godimento, totale empatia tra palco e platea (garantita anche dalla prossimità data dagli spazi ridotti) ma, ancor prima, acuta operazione di analisi, scandaglio, esplorazione di una partitura che proprio la sottrazione svelava nelle sue pieghe più intime.

Qui, in un’operazione insieme sartoriale e chirurgica, in perfetta sinergia tra buca e scena – qui la firma, altrettanto sottile, altrettanto a fuoco, era quella di Manuel Renga – la vicenda del nobile ormai bolso dagli anni e dal peso, squattrinato, ai margini di una società in cui il suo nome appartiene ad un glorioso passato ormai fuori moda, catturava senza lasciar spazio alla finzione, senza regalare nulla all’artificio. Grazie ad una manciata di valorosi musicisti ma anche ad un gesto tutto concretezza, onestà, incalzante autorevolezza, Palumbo disegnava quei contorni, quei tratti, con un’attenzione quasi somatica all’intera costellazione umana che Verdi punteggia con divertita minuzia. Tutto in filigrana, tutto al posto giusto, in un felice microcosmo che, ci auguriamo, possa aprire nuovi virtuosi scenari di riflessione in vista delle future programmazioni. Sarebbe la volta di un Festival davvero proiettato in avanti, animato dal coraggio di osare percorsi meno battuti e, soprattutto, deciso a scommettere sui talenti di domani.

Sul palco, incastonato in una scatola spoglia nel cui spazio asfittico si ammassavano tavoli, tavolini e tavoloni, resti di un palazzo oggi ridotto a chincaglieria, Falstaff – un Elia Fabbian monumentale per adesione vocale e verosimiglianza scenica, lontano da macchiettismi e facili trappole stereotipate – si aggirava senza pace. La sua casa ridotta ad un labirinto di vecchie masserizie. Qualcuno le usa per nascondersi, altri per dormirci, altri ancora, come il Bardolfo magnificamente scolpito da Roberto Covatta, come base per poggiarvi la bacinella in cui, schiena al pubblico, orinare indisturbato, salvo poi fuggire sotto le tonanti minacce del padrone e spargere il prodotto della minzione sulle pareti. Tutto, in questa regia acuta e arguta, ottenuta con mezzi all’osso ed efficace come poche, sa di stantio, di vecchio, di decadente. Tutto è un fiore già in avanzato stato di sfioritura. Falstaff conserva qualche buon abito, che indossa per far colpo sulla Alice marmorea di Ilaria Alida Quilico, ma si tratta di pezzi vintage. La sua casa oggi è una sorta di vigna di don Abbondio in cui urina e birra giacciono qua e là, come frammenti di una natura morta, tra boccali vuoti e un senso di desolazione che spinge il padrone di casa a cercar rifugio sulla poltrona della pedana laterale al palco, tra platea e primi palchetti, anch’essi usati come protesi allo spazio scenico.

Questo è il luogo in cui Falstaff si consegna a noi senza filtri, e il suo cuore messo a nudo, tolta ogni finzione, non può che toccarci tutti da vicino. Fabbian, da par suo, ne cercava gli accenti sotto le incrostazioni della maschera, là dove abita sir John, sottolineandone le ubbie e le ingenuità, la credulona tracotanza figlia di privilegi ormai scaduti. Un Falstaff che morde la vita come farebbe un ragazzino, ancheggiando nel suo abito di conquista, forse in cuor suo sapendo che si tratta dell’ultima volta. Controcanto a questo ritratto impeccabile, il trio di comari in cui, alla già detta Alice, spiccavano, nei gustosi costumi anni ’50 firmati da Aurelio Colombo, l’irresistibile personalità di Adriana di Paola, Quickly di gran lusso, e di Shaked Bar, Meg dalla classe prestata ad uno strumento vocale di bello smalto. Perfettamente a fuoco anche la coppia lirica costituita da Fenton, un interessante Vasyl Solodkyy dal profumo vagamente rétro, e da Nannetta, una Veronica Marini un po’ affettata nelle movenze ma pienamente a suo agio nelle vesti della fanciulla innamorata. Nel comparto maschile, oltre al Pistola del solito bravissimo Andrea Pellegrini, qui gran caratterista, a completare erano il Ford di Andrea Borghini e il Cajus di Gregory Bonfatti. A margine. Così da vicino, così lapidario, nella forza della parola solo avvolta da una sottile pellicola strumentale, mai altrettanto insinuante e audace ci era sembrata la ragnatela di riflessioni che il goffo Falstaff disseminava nelle sue massime strampalate. L’onore, l’amore, la ricchezza, il desiderio di beffare per prendersi un’ultima rivincita prima di abbassare il sipario dell’esistenza. Applausi generosi da parte di un Teatro Verdi affollato e festoso, omaggio alla vera sorpresa di un Festival giunto ai titoli di coda.