Recensioni - Opera

Festival di Erl: finalmente “L’amico Fritz”

Dopo quasi un anno di sospensione giunge al debutto l’opera di Mascagni brillantemente diretta da Francesco Lanzillotta

Già previsto per il festival invernale del 2020 e poi sospeso per i motivi che tutti conosciamo, finalmente giunge al suo debutto a Erl “L’amico Fritz”, seconda opera di Pietro Mascagni, composta nel 1891, esattamente un anno dopo la celeberrima “Cavalleria Rusticana”.

Opera curiosa questa seconda di Mascagni, tratta dalla commedia del duo di scrittori francesi Erckmann-Chatrian, sempre molto affini all’ambiente renano. La vicenda infatti è ambientata in Alsazia e, come spesso accade in Mascagni, l’ambiente riveste notevole importanza. Il compositore livornese si sposta dalle assolate atmosfere siciliane alle roride brezze alsaziane, passando dai classici pezzi chiusi della sua prima opera, ad una composizione di stampo più europeo, caratterizzata da un vivace coté sinfonico, inframmezzato ad arie di stampo prettamente italiano e con un recitar cantando fluido e ininterrotto. Mascagni è un anticipatore dell’opera di “ambientazione”, molto in voga al volgere dell’ottocento e a cui ricorrerà di frequente sia Puccini, basti pensare a Butterfly e Fanciulla del West, fino ad arrivare a Umberto Giordano, che dedicherà all’ambientazione addirittura il titolo di uno dei lavori a cui maggiormente teneva: “Siberia”.

Tornando all’Amico Fritz, il libretto di Nicola Daspuro è drammaturgicamente povero, narrando un idillio amoroso e poco più: Fritz, possidente e convinto scapolo, si innamora di Suzel, giovane contadina; dopo qualche titubanza e l’intervento di un saggio rabbino che funge da catalizzatore, i due coronano il loro sogno d’amore. Tutto qui. Manca in sostanza sia un vero antagonista maschile al tenore, il rabbino David è infatti una figura di saggio nobile; sia un’antagonista femminile a Suzel, il che riduce la drammaturgia ad uno scontato idillio campestre. Pare che Mascagni ne fosse consapevole e che si gettò su questo lavoro per dimostrare la superiorità della propria musica rispetto al soggetto.

La mancanza di un’antagonista deve aver colpito anche il team scenico, quasi tutto al femminile, del Festival di Erl, composto dalla regista Ute Engelhardt, dalla scenografa Sonja Füsti, dalla costumista Henriette Hübschmann e dal designer luci Jakob Bogensperger. La regista infatti sceglie di trasformare il personaggio di Beppe, uno zingaro che interviene alla festa di Fritz del primo atto, interpretato en-travestì da un mezzosoprano, in una donna, cercando in questo modo di creare una sorta di contraltare alla figura di Suzel. Il Beppe al femminile appare perciò nel primo atto in un pomposo abito ottocentesco, in palese contrasto con la semplicità di Suzel; riappare nel secondo atto nei sogni d’amore disperati di Fritz, per poi cantare la sua ultima romanza, nel terzo atto, cercando addirittura di baciare l’indeciso protagonista, che rifiuta le avances e si rende definitivamente conto di amare Suzel.

Ute Engelhard non ha tutti i torti nel scegliere questa strada, in linea con la tradizione germanica del “regie theater”, tuttavia si ferma un gradino prima della vera efficacia. Il tutto risulta abbastanza slavato, e il Beppe-zingara non convince realmente come antagonista di Suzel. Il resto è affidato ad un’idea di pulizia formale e di rimandi onirici, per cui da una parte abbiamo una casa di Fritz fin troppo austera e dall’altra un secondo atto campagnolo, intriso di leziosità, con vistosi alberi di ciliegio carichi di fiori bianchi. Gli interventi del coro non sono mai in scena, ma relegati nell’orchestra, accentuando in questo modo la parte intimista della storia. Non vi è accenno all’importanza sociale di Fritz, pur presente nel libretto, e l’idillio del villaggio alsaziano viene trasformato in un tormentata commedia psicologico di stampo ibseniano. Si intuisce che probabilmente tutta la vicenda è giocata sul filo del risvolto onirico: Fritz è spesso accasciato su un tavolo, immancabilmente colmo di bottiglie, ma anche in questo caso la cosa rimane accennata, mai veramente chiarita.

Nel terzo atto la regia si esplicita, risultando più illuminante e azzeccando diverse immagini di grande forza metaforica. Durante la sinfonia di apertura, appare uno degli alberi di ciliegio, spoglio questa volta, stagliato in una luce fredda e su cui cade una lieve nevicata. Suzel è distesa nella neve e Federico, uno degli amici di Fritz, le chiede la mano. Una delle scene più suggestive di questa messa in scena, ma è sempre un sogno e la scena scompare con l’affievolirsi dell’overture. Fritz è accasciato al tavolo, si risveglia, è scalzo, ha indosso un improbabile pastrano lungo fino ai piedi, continua a sognare: appare un tableaux vivant che riproduce la primavera del Botticelli. Fritz sogna atmosfere d’amore? Invernali, primaverili, estive. Il sogno è interrotto dall’arrivo della zingara tentatrice (Beppe trasformato in zingara), Fritz resiste, la zingara se ne va e arriva, come sempre al momento giusto, Suzel, questa volta porta della frutta. Le atmosfere amorose si moltiplicano come i frutti della natura introdotti dalla figura di Suzel: fiori, ciliegie, frutta. Tutto è concluso, non resta che dichiararsi il proprio amore.

Funzionali le scene di Sonja Füsti, non convincono i costumi di Henriette Hübschmann, in particolare per la scarsa capacità di rendere la freschezza sbarazzina di Suzel e per una certa genericità. Inguardabili il maglione anni ottanta per il rabbino nel primo atto, così come lo spolverino beige per Suzel nel terzo atto.

Nel complesso Ute Engelhard affronta con coraggio un libretto complesso e poco teatrale, confezionando una messa in scena ben organizzata, ma non sempre completamente risolta.

Dal punto di vista musicale in grande spolvero l’orchestra dei Tiroler Festspiele Erl, che trova in Francesco Lanzillotta un ottimo concertatore. Il direttore italiano privilegia il coté sinfonico dell’opera di Mascagni, sgranando sonorità opulente, stagliando magistralmente i chiaroscuri e le dissonanze presenti nella partitura. Non ha timore di chiedere ai cantanti in un canto quasi eroico, di stampo verista e appassionato. Un’ottima prova per lui.

Gerard Schneider e Karen Vuong interpretano rispettivamente Fritz e Suzel. Il primo delinea un personaggio sognante e appassionato, cantando sul fiato esalata le mezze voci senza aver timore a spingere negli acuti per sovrastare l’opulenta orchestra. Un’interpretazione salda la sua, a cui si perdonano alcuni acuti sbiancati e falsettanti. La seconda è una Suzel che spazia fra dolcezza e forza, disegnando un personaggio credibile, fin troppo consapevole forse. La voce è importante e ben calibrata. La tessitura più impervia presenta qualche affanno, sempre risolto però con intelligenza e controllo. Ottima prova anche per lei.

Il migliore della serata si rivela essere il baritono sloveno Domen Križaj (Rabbino David), che ci regala una voce dagli armonici accattivanti, sempre di gran volume, piegata ad una musicalità attenta e sorvegliata. Nina Tarandek era Beppe, in realtà la zingara in questa messa in scena. Un’interpretazione discreta per lei, anche se il personaggio mancava forse di quella femminilità zingaresca che avrebbe esplicitato ancora meglio gli intenti registici. Sottotono e spesso coperti dall’orchestra gli altri interpreti: Reilly Nelson, Carlos Andrés Càrdenas e Giovanni Battista Parodi.

Buon successo per tutti gli interpreti nel finale.

Raffaello Malesci (26 Dicembre 2021)