Recensioni - Opera

Fidenza: Convince a metà il Trovatore al Festival Verdi

Ripreso al Teatro Magnani l'allestimento di Elisabetta Courir con la bacchetta di Sebastiano Rolli

Epitaffio del belcanto, fucina di ardita sperimentazione, cuspide tra un mondo ormai morente e quelli ancora da disegnare, da immaginare. Immersa in un realismo di insostenibile crudezza, eppure allo stesso modo intinta nella più febbricitante, poetica visionarietà, Il Trovatore è opera che continua ad esaltare e a dividere. Quest’anno il Festival Verdi ha scelto proprio l’ultimo titolo della cosiddetta Trilogia popolare del Maestro di Busseto per esportare il cartellone anche nei territori della provincia. Ecco quindi orchestra, la Filarmonica Toscanini, e coro, quello del Regio preparato da Martino Faggiani, approdare, in sedicesimo – gli spazi son quelli, e occorre sforbiciare in suono e in compagine – al Teatro Magnani di Fidenza, ennesimo fiore all’occhiello di una terra traboccante di cultura e bellezza tanto da richiamare un pubblico sempre più internazionale.

In buca, la bacchetta di Sebastiano Rolli, chiamato al non facile compito di conciliare, nel solco dei tanti vincoli contingenti, le tante anime che abitano questo titolo di frontiera, quello con cui Verdi sembra in un certo senso chiudere con il passato per guardare ad una nuova stagione creativa, offriva una lettura nitida e a tratti assolutamente pregevole ma – soprattutto nei primi due atti, là dove i contorni della corrusca vicenda d’amore e ancor prima di atavico rancore – pericolosamente ferma sulla soglia del dramma. Uno sguardo prudente, cauto, il suo, più da spettatore che da attore, mai capace di abbracciare pienamente, di questa creatura sghemba e selvatica, la natura duplice e contraddittoria, l’essenza mercuriale e tragicamente ruvida. Acqua tiepida, insomma, al posto di colate laviche. A perderne erano tanto il pathos così come l’arco narrativo, spezzettato in tante tessere slentate nel passo tanto da minacciare il fluire della drammaturgia. In scena, la regia di Elisabetta Courir – già proposta al Festival di sei anni fa - coglieva nel segno aspetti cruciali del dramma, attraverso mezzi al limite dell’essenziale, ma a causa di una semplificazione estrema lasciava troppi risvolti sottesi. A dominare era la figura del cerchio: rovello, ossessione, pensiero fisso, ma anche cerchio di fuoco, senso di oppressione. In un nero pece che dominava l’intero svolgersi dei quattro atti, senza dare mai un respiro, uno spiraglio, a colpire erano le faville ormai estinte di un rogo. Pagliuzze grigie in un cielo senza stelle. Qui, attorno a questa forza centripeta si muovevano, monadi destinate a non incontrarsi mai se non nel ricordo, o nella speranza, i personaggi, tenuti insieme dalla figura di un mimo, sorta di io rifranto di una Leonora smaterializzata, tra allucinazione e riscatto, memoria e delirio. E ancora, circolare era il coro, gitani alle prese non con ferri arroventati ma con coltelli che passavano di mano in mano, in una danza macabra che era insieme segno di appartenenza, tacito invito all’azione, alla rivolta a costo della vita. Tutto è ombra, notte, cenere: lo erano il grido d’amore di Leonora, una Marigona Qerkezi (chiamata a sostituire l’indisposta Silvia dalla Benetta) dal timbro nobile e brunito e dalla vocalità solida, ma in affanno nei passaggi di agilità, il desiderio di dominio del Conte di Luna – reso con la giusta grettezza da Simon Mechlinski – e i sogni ambiziosi e ingenui di Manrico, un Angelo Villari muscolare e un po’ approssimativo per intonazione. Ma soprattutto agonizzante in un polveroso impasto di fragilità, stanchezza ed un’ultima vampata di disperato, angosciante desiderio di riscatto era la Azucena di Rossana Rinaldi, autorevole zingara al netto di qualche opacità di troppo nella celebre evocazione dell’indicibile infanticidio che dà il via alla vicenda. Pubblico caloroso e visibilmente emozionato, quasi a sottolineare la voglia di Festival che si respira anche fuori dalla città ducale.