
Artista riconosciuto in tutto il mondo come tra i più importanti rappresentanti dell’arte concettuale italiana
Arte sottile ed enigmatica quella di Giulio Paolini che gioca sapientemente con la storia dell’arte e con l’ontologia della comunicazione artistica contemporanea. Enigmatico, misterioso, “metafisico”, riflessivo: parole che sono state spesso utilizzate riguardo il percorso artistico del Maestro Giulio Paolini. Ma l’arte di Paolini è assai articolata: non è mai mancante anche quando gioca con pochi elementi. Un’arte che sappiamo bene si inscrive nel settore dell’installazione tra scultura e pittura o tra disegno e fotomontaggio. Un’arte che gioca con pochi colori: il bianco è quasi sempre presente permeando i suoi oggetti in uno spazio alterato, subalterno. Oggetti dell’arte che possono essere busti in gesso di opere classiche. In base a disposizioni ben studiate e calibrate Paolini crea situazioni diverse in un dialogo continuo tra gli oggetti stessi: il frammento emerge come protagonista di una ricostruzione degli intenti comunicativi. Oltre ai busti in gesso collocati spesso dentro teche protettive trasparenti Paolini gioca sapientemente con frammenti scultorei, tele bianche, cavalletti per la pittura, colonne di derivazione classica, telai per quadri ecc. Recuperando semplice oggettistica dal sistema commerciale-riproduttivo legato quest’ultimo allo studio artistico, Paolini ripone questi oggetti “relativamente poveri” per entrare in un sistema di presentazione dal valore assolutamente artistico e altamente concettuale. Oggetti che interponendosi portano l’osservatore a ricercare e a scoprire continuamente nuove possibilità interpretative. Installazioni che però hanno sempre una caratteristica simile alla presentazione scenografica più acuta e arguta. Paolini crea in sostanza degli assembramenti-assemblaggi di oggetti che giustapposti con maestria (rigorosamente con guanti bianchi) ne esalta le possibilità mediatiche e sembra invitarci in un teatro miseterioso degli oggetti dell’arte. Questo aspetto teatrale così forte evoca la risonanza fra oggetti spesso di derivazione classica; risonanza che assume correlazioni sempre più singolari rispetto lo spazio di collocazione. Sicuramente termini quali: spazio, storicità, evento, silenzio, musicalità, sovvengono per entrare in un discorso complesso, risonante, dove l’artista desidera ascoltare e inseguire un’eco. La sua opera appare come quella di un regista degli oggetti: opere installative che bene si prestano alla complessità spaziale che la scenografia (e di conseguenza la scenoplastica) contemporanea esige anche nelle sue forme più stringenti ed essenziali o minimali. In sostanza le opere di Paolini sembrano nate e codificate per entrare in scena e “partecipare”, se vogliamo, ad un’opera teatrale.
Abbiamo molti esempi di scenografie realizzate dal Maestro visibili soprattutto nel suo archivio di proprietà della Fondazione che porta il suo nome. Direi che l’idea di alterazione dal contesto appare il filo conduttore del suo esserci. Non bisogna qui confondere l’alterazione con l’estraniazione; Paolini pare sempre collegato al dialogo con la storia e con il passato quale proiezione altra e futuribile nel suo divenire “forma di pensiero”, oltre che forma plastica intellegibile. Le sue opere scenografiche-scenoplastiche sono senza dubbio da riscoprire come nel caso della “scenografia” ideata per “La Valchiria” di Wagner del 2005 e allestita al Teatro di San Carlo di Napoli; forme emblematiche, suggestive, percezioni tridimensionali essenziali che presentano un apparato minimale ma tutto ciò per un cosiddetto spazio libero, per un gesto teatrale, per esaltarne l’atto stesso nel suo manifestarsi. Una struttura metallica minimalista realizza una spazialità del tutto geometrica precisa e terrena, perimetrale. All’interno o in dialogo con esse ecco apparire oggetti a volte estranianti: contrasto mirabile per tale ambientazione lineare dalla spazialità misurabile. La luce fattore qui importante infonde un’aura irreale, ultraterrena. Interessante è per esempio il “Parsifal” di Wagner del 2007 (sempre realizzata nel Teatro San Carlo di Napoli) supera il sogno e “l’immagine” delle colonne bianche di matrice classica e loro conseguenti basi (citazione e riproposizione delle colonne dell’atrio della Villa Pignatelli Cortes di Napoli) diventa apparizione sensoriale. L’immagine risulta seriale e dalla forte ritmicità. Un segno forte e incisivo che si staglia e quindi potente evocazione segnica che emerge in un nero plumbeo. Un bianco che si staglia nello sfondo dell’infinitezza ne può allora sublimarne l’eco segreto. L’osservatore vige così nell’osservatorio delle arti nel profondo mistero degli eventi. La regola insegue un sentiero di infinite possibilità e la stessa regola rimane sospesa, imbrigliata in uno spazio incantato ma sempre mutevole per Sua natura; Paolini ci immerge in un percorso di richiami alla storia dell’arte e della visione nostra stessa, dentro una prospettiva atemporale, misteriosa, arcana, musicale.
Giulio Paolini si sa è maestro dell’arte concettuale tanto che Germano Celant ne colse subito le potenzialità. Lampante direi è la sua visione ampia; visione tale da valicare confini fino a compiere evoluzioni di pensiero ardue e riflessive.
Quindi la scenografia teatrale è probabilmente per Giulio Paolini non solo modo per interagire con un testo drammaturgico ma vera e propria continuazione intrinseca, quasi spontanea, in un senso però strettamente contemporaneo, per una storia che diviene perciò, a sua volta, “presentazione” di una rappresentazione.