Recensioni - Opera

I Dervisci Sari Gül al teatro di Buffalora

Fino a che punto una cerimonia religiosa può diventare spettacolo e viceversa? Sia chiaro che con il termine “spettacolo” non p...

Fino a che punto una cerimonia religiosa può diventare spettacolo e viceversa?
Sia chiaro che con il termine “spettacolo” non parlo soltanto dell’aspetto coreografico che può essere insito nel rito stesso (si pensi allo sfarzo ed all’opulenza delle messe durante l’epoca della Controriforma), ma mi riferisco al caso in cui l’evento diventa una rappresentazione rivolta a persone che vi assistono dall’esterno non avendo la possibilità di parteciparvi direttamente.
L’esibizione dei Dervisci Sari Gül che ha avuto luogo al teatro di Buffalora era dunque rito o spettacolo? Oppure era un ibrido tra rito (per chi lo ha eseguito) e spettacolo (per chi vi ha assistito)?

A mio avviso già il fatto di essersi trovati all’interno di un teatro inquadra la situazione secondo uno schema ben preciso: il teatro è il luogo per eccellenza della “rappresentazione”, per cui già la scelta di uno spazio in cui si pone in modo netto questa divisione tra palco e platea induce i partecipanti ad affrontare la situazione secondo un codice predefinito. Allo stesso tempo, però, durante la presentazione della serata si è parlato di “cerimonia religiosa”; ma se le persone coinvolte si trovano nella condizione di non poter entrare in contatto con questa realtà, vuoi perché non ne conoscono i le modalità, vuoi perché questo processo richiede la perfetta padronanza di tecniche ben precise, vuoi perché sono già stati inquadrati nella posizione di spettatori, l’idea di comunione tra i partecipanti non funziona più. Per cui ecco che molti passaggi della preghiera, che sicuramente hanno un valore simbolico notevole e sono comunque carichi di forti suggestioni, alla lunga diventano schematici e ripetitivi e perdono molto della loro capacità comunicativa. In sostanza è un po’ come se uno assistesse ad una messa, isolato un una campana di vetro sulla porta della chiesa, senza sapere più di tanto che cosa sta succedendo intorno a lui. Oltretutto c’è anche un’altra componente non trascurabile: per assistere ad una cerimonia religiosa non si paga, per cui nel momento in cui da parte di chi vi accede viene corrisposto un prezzo di ingresso non si può più parlare di “condivisione di un’esperienza” ma ci si pone inevitabilmente su un rapporto datore-fruitore.

Alla fine tutto suona un po’ come un compromesso tra chi è attratto, o meglio incuriosito, da queste discipline esoteriche ed approfitta del fatto che qualcuno gliele porti sotto casa (allo stesso modo in cui una volta si andava a vedere le tigri impagliate nei musei, salvo poi magari lamentarsi che “comunque non è come vedere le tigri vive”) e chi invece questi riti decide di adottarli (come questo gruppo di Assisi) e, poiché “il mercato è comunque mercato” e di qualcosa bisogna pure campare, li usa come fonte di introito (un po’ come i frati che da una parte scelgono l’isolamento dal mondo e dall’altra incrementano i bilanci vendendo liquori di erbe).
Ma un liquore non è l’anima, e spacciare una bevanda come digestivo è molto più semplice che garantire l’elevazione dello spirito mediante l’osservazione di sette uomini che girano su sé stessi, ed allora scatta il sospetto che alla fine l’operazione commerciale prevalga nettamente su quella spirituale.
Francamente non me la sento di abbracciare appieno questa tesi, pur riconoscendo che dal punto di vista della realizzazione ho riscontrato alcune soluzioni di carattere tecnico dubbie e discutibili che portavano verso questa direzione. Al di là della scelta dello spazio, di cui ho già parlato, mi ha lasciato perplesso anche la decisione di ricorrere ad un sistema di amplificazione, gestito oltretutto in modo non particolarmente professionale, che spesso era elemento di disturbo e che ha dato un’impressione di pressapochismo. D’altra parte mi domando fino a che punto sia il caso di scandalizzarsi se i Dervisci si esibiscono in teatro, amplificati, quando vengono benevolmente accolti da pubblici ignavi fenomeni altrettanto ibridi e rabberciati quali la lirica negli stadi o il teatro nelle palestre.

In conclusione ritengo che in situazioni come queste, il giudizio non possa che essere assolutamente personale, a seconda di quanto ciascuno ha potuto cogliere da questa esperienza, che si tratti della catarsi o più semplicemente di fumo negli occhi. Per quanto mi riguarda posso solo dire che nel complesso ho apprezzato molti aspetti di quanto è stato presentato, e questo un po’ mi trattiene dall’accanirmi nel chiedermi: “Ma che cosa ci sta dietro?”, e forse per questa volta mi basta così.

D. Cor. 26/1/2002