Recensioni - Opera

I Puritani al Ponchielli: Bellini tra fanatismi, lune fragili e un amore combattuto

L'ultima opera del compositore catanese torna nei teatri del circuito lombardo

Al Teatro Ponchielli di Cremona, la recita del 6 dicembre de I Puritani ha confermato quanto l’opera estrema di Vincenzo Bellini, presentata per la prima volta nel 1835 al pubblico parigino del Théatre de la comédie italienne, resti una sfida sottile: un territorio di sospensioni, rarefazioni e fenditure emotive, più lunare che bellico.

La guerra civile inglese è infatti un fondale sbiadito; la musica insiste altrove, su quelle zone dell’anima dove nostalgia e paura si inseguono senza toccarsi davvero. Il giovane regista Daniele Menghini sceglie di abitare proprio quel confine ambiguo tra devozione e fanatismo. Una grande tavola nuziale deserta apre la scena: promessa di festa già incrinata. L’ingresso di un’auto in retromarcia che consegna lo champagne introduce un dettaglio perturbante, mentre il ritratto monumentale di Oliver Cromwell incombe sui puritani come un giudice muto. Tutto è composto, disciplinato: uomini che scandiscono litanie, libri delle preghiere stretti come armi rituali. La società puritana è un presente imbrigliato nel passato, irrigidito in un culto della tradizione che si è trasformato in un guscio sterile e soffocante. In questo reticolo di dogmi e di veti, Elvira tenta soltanto di respirare.

La direzione di Sieva Borzak accompagna questo ambiente rarefatto e asfittico con un gesto musicale altrettanto misurato: una lettura filologica e insieme sensibile, che non cerca mai il peso, né cade nella trappola di cedere alla più accesa tavolozza di colori protoverdiani. L’Orchestra dei Pomeriggi Musicali resta leggera, tesa, vigile. Già nell’aria di sortita di Elvira, “Son vergin vezzosa”, Borzak optava per una trasparenza cameristica che permetteva alla protagonista di svelarsi come figura sospesa, gioiosa appena in superficie, già incrinata nelle fibre più intime. Quando Arturo irrompe con “A te, o cara”, la regia gioca un colpo efficace: i due innamorati non si toccano mai davvero. Restano separati da quella lunga tavola nuziale, come se il matrimonio fosse già un’assenza, un desiderio che si sottrae. La scelta amplifica l’aura di sospensione che Bellini intesse nella partitura: le frasi fiorite di Arturo sembrano slanciarsi verso un orizzonte irraggiungibile, una felicità promessa ma continuamente rinviata. E la follia di Elvira, nell’ampio recitativo e nella successiva “Qui la voce sua soave”, è levigata con il pudore che ne esalta la mestizia, l’introspezione. Menghini la colloca in una stanza di memorie alterate: resti di decorazioni, frammenti di stoffe bianche, quasi un interno della mente, più che di una casa.

Maria Laura Iacobellis affronta la scena con una delicatezza che non rinuncia alla tensione: acuti vibranti ma mai aggressivi, un centro morbido, una naturalezza nel fraseggio che lascia filtrare un dolore non teatrale ma autentico, umanissimo. Nei filati, la voce si assottiglia come una lama di luce; nella cabaletta, il delirio si fa quasi infantile, disarmante nella sua fragilità. Il contraltare emotivo arriva con Ah! per sempre io ti perdei: Riccardo, cupo e febbrile, osserva Elvira da lontano, mentre la regia gli nega ogni gesto di possesso, confinandolo nel ruolo di spettatore di un dramma che non può correggere. Dal canto suo, Sunu Sun, pur con qualche irregolarità, costruisce un personaggio dal tessuto vocale scuro e drammatico, intimamente lacerato, più vero nelle ombre che negli slanci. Il duetto “Suoni la tromba” diventa una marcia interiore più che un appello bellico: Menghini lo priva di qualsiasi trionfalismo, trasformandolo in una dichiarazione d’identità, più che di guerra: il dolce sogno di morire per la giusta causa. Dulce et decorum est. L’ingresso finale di Arturo è affidato a una trovata minima ma efficace: non arriva come un eroe, bensì come un uomo stremato, quasi intruso nel proprio destino. Borgioni, con il consueto timbro chiaro e generoso, risolve il difficile “Credeasi misera” con qualche acuto eccessivamente lanciato, ma con un ardore sincero e una naturalezza che restituisce alla scena la sua essenza: un’estrema domanda d’amore prima della resa. Accanto a lui, la nobile Enrichetta di Benedetta Mazzetto offre un sostegno di smagliante compattezza timbrica.

Nel comparto maschile solido e autorevole il Gualtiero di Gabriele Valsecchi, energico il Giorgio di Roberto Lorenzi. Il Coro OperaLombardia, guidato da Massimo Fiocchi Malaspina, si muove bene nel paesaggio severo disegnato dalla regia, anche se non sempre perfettamente a piombo nei momenti d’insieme. Peccato per diversi posti vuoti, complice il ponte dell’Immacolata: perché questa produzione, giovane ma non acerba, meritava una sala piena; e perché I Puritani, nella loro grazia attraversata da scarti e chiaroscuri, restano soprattutto un invito a interrogarci — più che su una pagina buia e convulsa del Seicento — su quanto siamo disposti a lasciarci salvare dalla bellezza. Una domanda aperta che Bellini ci consegna come un frammento di luna.