Recensioni - Opera

I due cupi bamboccioni di Verona

Il testo giovanile shakespeariano interpretato in chiave “commedia nera” da Giorgio Sangati

I due gentiluomini di Verona, molto probabilmente la prima commedia scritta da un giovane William Shakespeare, introduce molti degli schemi che faranno parte del suo stile e che rivoluzioneranno la drammaturgia elisabettiana, a partire da quel “teatro dell’invidia” che caratterizzerà una parte importante della sua produzione. Lo schema del giovane innamorato che, per una forma di rivalità inconscia, desidera e corteggia la donna amata dall’amico, sostituendosi a lui, viene enunciato in quest’opera per essere poi ripreso in svariati testi, tra i quali Sogno di una notte di mezza estate, Troilo e Cressida e Il racconto d’inverno.

 

E l’impressione che si ha assistendo a questa nuova produzione firmata nella traduzione e nella regia da Giorgio Sangati per il Centro Teatrale Bresciano e il Teatro Stabile del Veneto è che il regista abbia compiuto una sorta di ideale collegamento tra la prima e l’ultima delle commedie shakespeariane, tale è la sensazione di “commedia nera” che si respira in questi Due gentiluomini, quasi Valentino e Proteo provenissero dalla cupa e tetra corte di Leonte.

 

 

I due protagonisti, qui visti come bamboccioni viziati in procinto di fare il salto nel mondo degli adulti, devono confrontarsi con una realtà dura e ostile, resa con grande efficacia dalla scenografia firmata da Alberto Nonnato. Pareti di cemento e lamiera freddamente illuminate dalle belle luci di Cesare Agoni caratterizzano uno spazio astratto in cui si muovono personaggi dai costumi senza tempo disegnati da Gianluca Sbicca: abiti di foggia moderna impreziositi dalla presenza della gorgiera.
Si ride poco e si ride amaro in questa commedia, ed anche i momenti più marcatamente comici, ovvero le scene che vedono protagonisti Lanciotto -un esuberante Paolo Giangrasso- e il simpatico cane Charlie, non riescono a strappare l’applauso liberatorio, tanto l’atmosfera è carica di tensione, soprattutto negli ultimi due atti.

 

 

Sangati, fedele alla lezione del suo maestro Luca Ronconi, compie un lavoro di analisi meticolosa del testo, presentato in versione integrale. Ogni frase è scavata, cesellata, in un gioco di pause e accentazioni che, se da una parte hanno il pregio di esaltare la parola shakespeariana e fornire tridimensionalità ai personaggi, dall’altra dilatano (forse in misura eccessiva) i tempi arrivando ad una durata di circa tre ore.
Omogeneo ed affiatato il cast su cui spiccano l’ambiguo Proteo di Fausto Cabra e la Giulia di Camilla Semino Favro, molto brava a passare dalle nevrosi dell’innamorata incerta al dolore della sedotta e abbandonata. Ivan Alovisio è un Valentino dagli accenti drammatici, Antonietta Bello è un’algida e sostenuta Silvia figlia del solido Duca di Luciano Roman mentre Ivan Olivieri tratteggia un simpatico Turio. Bravi e in parte tutti gli altri interpreti, ovvero Gabriele Falsetta (Svelto) Giovanni Battista Storti (Antonio), Chiara Stoppa (Lucetta), Alessandro Mor (Eglamore), Diego Facciotti (Bandito).

 

Davide Cornacchione 28/10/2017