Recensioni - Opera

I due finali del Tancredi di Rossini inaugurano il Festival della Valle d’Itria

Tutto esaurito e vivo successo al Palazzo Ducale di Martina Franca 

Inaugurata la 51esima edizione del Festival della Valle d’Itria con il melodramma “eroico” Tancredi, nell’edizione critica di Philippe Gosset e nella versione dei due finali, tragico e lieto, rappresentati senza soluzione di continuità presso il cortile di Palazzo Ducale di Martina Franca. In sostanza, sono state riprese le versioni composte da Rossini nel 1813 su libretto di Gaetano Rossi per il Teatro La Fenice di Venezia (6 febbraio) e del Conte Luigi Lechi per il Teatro comunale di Ferrara (21 marzo).

Tancredi è un capolavoro del repertorio operistico serio rossiniano, una meteora nella produzione operistica del Pesarese appena ventunenne, reduce dai primi successi a Venezia in ambito comico e dalle esperienze in quello serio con Demetrio e Polibio e Ciro in Babilonia; è un astro vitale che piomba nelle scene melodrammatiche del primo Ottocento diffondendo una luce nuova, abbagliante rispetto agli opachi riflessi dell’allora teatro operistico europeo, sostanzialmente privo di riferimenti stilistici e che palesa, pertanto, l’inizio di un nuovo ciclo nel quale la prima raggiunta maturità rossiniana fa tutt’uno con una svolta storica dell’opera italiana. In questo capolavoro, ogni parametro musicale viene vestito di leggerezza, l’invenzione melodica abbandona la retorica del simmetrico fraseggio settecentesco per condensarsi in idee semplici e incisive, le peculiari inventive rossiniane si racchiudono in un’organizzazione formale e di scrittura in cui snellezza e concisione diventano nuove categorie estetiche!

Tancredi è opera contemporanea e attuale per i temi trattati. Le guerre, i conflitti, i fraintendimenti presenti nel mondo e che pervadono la vita di tutti i giorni sono una “costante”, visibile e invisibile, che permea l’intera opera: è una guerra civile quella che si finge in Siracusa nel 1005 tra le nobili famiglie di Argirio e Orbazzano; è un conflitto militare quello tra Siracusa e il nemico straniero, Solamir, capo dei Saraceni, per sconfiggere il quale le due famiglie pongono fine alle discordie interne unendosi in una pace effimera, il cui prezzo è pagato da Amenaide, costretta al matrimonio con Orbazzano. E’ un conflitto sofferto quello tra Argirio e la figlia Amenaide, per il rifiuto di lei all’obbligo nuziale e la conseguente sua carcerazione e condanna a morte firmata dal padre per tradimento della patria, accusa imputatole dal promesso sposo per un fraintendimento e una distorta comunicazione. E’ forte e disperato l’interiore dilemma di Tancredi per il presunto tradimento di Amenaide con Solamir, cui si crede esser stata indirizzata una lettera con supplica a rientrare a Siracusa. La lettera era destinata invece all’amato Tancredi, esule, accusato di connivenza con i Saraceni e pertanto condannato a morte. E’ mortale per Orbazzano il duello mosso da Tancredi per liberare l’amata Amenaide; fatale è per Tancredi la guerra contro Solamir nel finale tragico dell’opera; ferito a morte è il Saraceno nel finale lieto, il quale prima di morire protesta l’innocenza di Amenaide.

La contemporaneità dei temi, condensati nel titolo del Festival “Guerre e pace” è fonte d’ispirazione per l’originale e apprezzata regìa di Andrea Bernard. L’artista, già insignito del Premio Abbiati 2024, ambienta l’opera in un luogo atemporale, simbolico, dilaniato dalla violenza: un parco giochi con tanto di giostrina ferma e due altalene, una immobile, l’altra rotta, sono in primo piano nel primo atto; ammassi di banchi con sedie campeggiano lateralmente sulla scena nel secondo atto; un lungo muro diroccato con due vani porta smantellati ai lati, copiosi ammassi di detriti e un siluro fanno da sfondo a un campo da guerra simboleggiato da una torre di vedetta. Alle scene di “guerra”, realizzate da Giuseppe Stellato ed efficacemente rappresentative dell’infanzia negata, della distruzione materiale e interiore dell’umanità, si contrappone l’innocente sguardo di un bambino che con simbolici gesti di pace e amore chiede ascolto come per una rinascita dalla morte, ovvero come alternativa alla negazione della verità. Si muove bene in scena Carlo Buonfrate, quale bambino figurante, anche quando si avvicina a Tancredi, morto sulla scena nel finale tragico per ridargli vita, come per “incanto”, rendendolo personaggio attivo nel finale lieto.

E’ tutto giovane il cast di questa nuova produzione di Tancredi, a cominciare da Yulia Vakula, mezzo soprano en travesti, che veste i panni dell’eroe eponimo, affrontando una parte vocale che nella concezione originaria di Rossini fu tagliata per il contralto Adelaide Malanotte Montresor, musa ispiratrice, peraltro, del finale tragico approntato dal Conte Lechi, suo convivente. Abbastanza disinvolta in scena, benché con timido esordio, l’artista esibisce una tessitura vocale morbida con buono squillo negli acuti, ma poco corposa nel registro medio-basso.

Limpida e flessibile è la vocalità del soprano Francesca Pia Vitale, un’ Amenaide dalla bella presenza e buona prestanza scenica, che ben interpreta la sofferenza del suo addolorato animo nella scena e cavatina “Tu che i miseri conforti”, come in altri passi dell’opera, tra cui il duetto “Fiero incontro”. Una lieve pecca si palesa nella chiusura dell’aria “ Qual fragore! Il mio fato è già deciso”, a scapito della chiara tenuta vocale. Nel complesso l’artista riscuote palesi apprezzamenti del pubblico.

Ottimo è l’Argirio di Dave Monaco, tenore emergente sulle scene internazionali per la peculiare vocalità rossiniana. Benché giovane, l’artista esibisce un’interpretazione scenica autorevole, degna del ruolo assunto, con voce impetuosamente incisiva, sostenuta da chiari, flessibili ed eleganti virtuosismi, risolvendo con bravura tecnica le complessità dell’impervia tessitura. Fra i recitativi e le arie, tutte ben interpretate, segnaliamo l’aria “Giusto Dio, che umile adoro”, calorosamente apprezzata dal pubblico con applausi e ovazioni.

Molto ben risonante è la corposa e calda voca da basso di Adolfo Corrado che interpreta un Orbazzano determinato nel carattere, sebbene un po’ ingessato nell’azione scenica.

Completano il cast l’Isaura del contralto Hinano Yorimitsu e il Roggiero del soprano Giulia Aletto.

Ottima è la prestazione e resa corale del L.A. Chorus, Lucania & Apulia Chorus, preparato da Luigi Leo, ampiamente apprezzato sia per l’omogenea tessitura delle voci, la chiara risonanza e dizione degli interventi, sia per la prestanza scenica. Molto ben interpretati sono i cori: “Amori scendete”, autoimprestito peraltro da L’equivoco stravagante, “Plaudite, o popoli al vincitore”, “Muore il prode, il vincitor”.

Ha tenuto bene il rapporto tra l’orchestra, la scena e i cantanti, il direttore Sesto Quatrini, alla guida dei giovani e talentuosi strumentisti dell’Accademia Teatro alla Scala. Con studiata ed elegante gestualità, l’artista ha restituito una partitura rossiniana priva di retorica ma ricca di cantabilità. E nel finale tragico, ove la musica è ridotta al minimo e il canto diviene un declamato sillabico, è parso di ascoltare il silenzio che usciva dalla musica.

Si segnala il lavoro compiuto da Ilaria Ariemme per i costumi “senza tempo” indossati dagli artisti.

Alla fine, vivo successo per la première di quest’opera per la quale era registrato il “tutto esaurito”.

Giovanna Facilla