Recensioni - Opera

Il Regio di Torino inaugura con Francesca da Rimini

Il Regio di Torino decide di aprire la sua nuova stagione 2025/2026 presentando un titolo di un compositore italiano non così noto e che meriterebbe invece una maggior presenza nella programmazione dei nostri teatri

Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, tratta da Tito Ricordi dall’ imponente lavoro teatrale omonimo di Gabriele d’Annunzio, ebbe la sua prima rappresentazione italiana proprio al Teatro Regio il 19 febbraio 1914 e va assai bene a rappresentare quel tipo di gusto che, ponendosi tra il simbolismo ed una sua peculiare interpretazione imperniata su modelli storici passati e tendenzialmente didascalici, largheggiò non solo nel nostro paese ma in una grande parte del panorama artistico europeo.

In questo eclettico contesto culturale il compositore (Rovereto, 28 maggio 1883 - Trebbiantico, 5 giugno 1944) giunse ad elaborare i numerosi influssi musicali che punteggiano la sua opera in maniera assolutamente originale, riuscendo a trarne una componente personalissima e di interessante spessore. Eminentemente sinfonica la partitura vive infatti del potere evocativo della parola cui l’orchestra plasma e suggerisce ogni significante e necessita di interpreti che siano in grado di modularne la complessità giungendo a ben trasmettere i raffinati simbolismi che dietro questa si celano.

Non certo di facile esecuzione (data la complessità dei temi che ne siglano il carattere) l’opera di Zandonai può conoscere diversificate chiavi di lettura a seconda della prospettiva dalla quale si vuole osservarne la narrazione e quella scelta per questa nuova produzione dal regista Andrea Bernard è apparsa convincente per molte motivazioni. Alla ricerca di un taglio teatrale che andasse oltre l’abusata visione oleografica con lo scopo di evidenziare il messaggio di fondo dell’opera che, vivo da sempre, mantiene inalterata la sua potente grazia, Bernard sposta lo sguardo al suo interno.

Francesca è una fanciulla che vive in un’epoca ed in un mondo esclusivamente maschile nel quale l’unica ambizione di vita sembra essere l’autoaffermazione attraverso la guerra vista come fulcro di ogni accadimento. A questo livido contesto la protagonista decide, in piena consapevolezza, di opporsi, scegliendo il proprio destino con forza e determinazione, ritagliandosi uno spazio che, a metà tra sogno e veglia, può consentirle una qualche forma di libertà.

La scena diventa dunque la stanza chiusa in cui vive e che condivide con le amiche (un po’ complici e un po’ compagne di un gioco quasi adolescenziale) e con la memoria della sorella Samaritana, vista come chiave di un mondo a cui lei sola ha accesso e che le schiude onirici panorami di un Eden inaccessibile. L’azione è spostata in ambito ottocentesco ma i costumi di Elena Beccaro sembrano tradirne l’universalità così come l’efficace meccanismo scenico di Alberto Beltrame ne evidenzia il dualismo che spesso affianca realtà e visione con efficace continuità. L’amore di Paolo e Francesca appare dunque così esso stesso quasi come un sogno al quale la ragazza stessa decide di porre fine per perpetuarne l’ideale. Un taglio deciso e coerente che va ad approfondire la densità di questa opera che vive più di silenzi che di clangori (solo destinati al mondo esterno ed ai suoi protagonisti) e che trova proprio in questa sua dimensione più filosofica e meditativa la sua più interessante chiave espressiva.

Dominato da un complessivo equilibrio il cast impegnato in palcoscenico offriva (pur con i dovuti distinguo) una prova di tutto rispetto.

Ekaterina Sannikova pur non potendo contare su di una vocalità particolarmente uniforme (specie nel registro acuto dove tendeva a perdere omogeneità), mostrava altresì un timbro assai interessante quanto mobile e ricco di armonici che le consentiva di cesellare il suo personaggio con giusta intensità teatrale ed espressiva.

Più monocorde appariva invece il Paolo tratteggiato da Marcelo Puente che non andava oltre un’interpretazione di maniera assai lontana dalla visione quasi metafisica a lui destinata dal l’orchestra.

Forte di un’interpretazione cesellata e mai banale il Gianciotto tratteggiato da Simone Piazzola ben riusciva a delinearne la personalità, così come il Malatestino di Matteo Mezzaro metteva in evidenza le buone qualità interpretative di questo giovane artista. Samaritana veniva interpretata con attenta misura espressiva da Valentina Boi così come eccellenti apparivano le prove di Valentina Mastrangelo (Biancofiore), Albina Tonkikh (Garsenda), Martina Myskohlid (Altichiara) e Sofia Koberidze (Donella).

Silvia Beltrami si muoveva con professionalità restando però un po’ ai margini del magnetico carattere di Smaragdi. Molto bene Devid Cecconi quale Ostasio così come Enzo Peroni (Ser Toldo) e Janusz Nosek (il giullare). A posto il resto del cast: Daniel Umbelino (Il balestriere), Eduardo Martínez (Il torrigiano) e Giovanni Castagliulo (Un prigioniero).

Professionale ed attento il coro del teatro diretto da Ulisse Trabacchin.

Molto interessante la lettura di Andrea Battistoni che ha saputo ben miscelare le differenti peculiarità e dinamiche di questa partitura, offrendone una visione omogenea ed intensamente coinvolgente.

Sala quasi gremita ed applausi per tutti gli interpreti ed il Direttore per questo inizio di stagione torinese che si presenta di indubbio interesse.

Torino, 23/10/2025