Recensioni - Opera

Il rigido inverno di Lievi

Il dramma del norvegese Jon Fosse, nel nuovo allestimento del Centro Teatrale Bresciano, bloccato nei formalismi della regia

Giunto al suo secondo allestimento italiano nell’arco di un lustro, Inverno è il testo che forse maggiormente ha consentito al drammaturgo norvegese Jon Fosse di farsi conoscere anche nel nostro paese. Erede diretto di quella tradizione nordica che ha in Ibsen il suo massimo esponente, anche Fosse porta in scena una serie di personaggi chiusi in sé stessi, incapaci di comunicare e di relazionarsi, sopraffatti dalle loro paure e dalle loro angosce.

Inverno racconta di un lungo dialogo, scandito in varie tappe, tra un uomo d’affari ed una prostituta. La prima cosa che si nota, e che costituisce la principale caratteristica del testo, è la totale povertà di linguaggio che i due utilizzano per “non comunicare”. Parole banali inserite in una sintassi elementare, con frasi spesso ripetute ma più per riempire un vuoto che per sottolinearne il senso. La lingua scarna e vuota degli sms diventa l’unico strumento che i due hanno per parlarsi, per cercare un punto di contatto, probabilmente per condividere una situazione che è comune ad entrambi e la cui condivisione potrebbe aprire nuove prospettive. E questo avviene, in un lieto fine che scatta così, all’improvviso, in modo quasi gratuito, nel momento in cui sembra che i due non abbiano quasi più niente da dirsi.
Il regista Cesare Lievi, coadiuvato per questa nuova produzione bresciana dallo scenografo Josef Frommwieser, utilizza i due luoghi d’incontro, ovvero il parco di betulle e la stanza da letto, dapprima separati ed in un secondo momento facendoli compenetrare l’uno nell’altro, divisi solo da un telo semitrasparente, ricorrendo a luci fredde ed asettiche che altro non fanno che raggelare ulteriormente un’atmosfera emotiva a temperatura già molto bassa. Discorso analogo avviene per la recitazione, e questo è a mio avviso il maggior limite dell’allestimento: infatti il costringere i due attori a muoversi all’interno di una rigida partitura fisica, con le parole scandite in modo quasi impersonale, rende ancora più difficoltoso seguire un testo che, per la sua frammentarietà e povertà lessicale, tende spesso alla ripetizione. La sensazione che si ha è quindi quella di assistere ad un elegante esercizio di stile che col tempo tende ad avvilupparsi su sé stesso, nonostante la bravura e la meticolosa cura dedicata alla recitazione dei due attori, ovvero Giuseppina Turra e Sergio Mascherpa.
Anche gli stacchi musicali suonano un po’artificiali: sia la dirompente musica techno che funge da stacco tra una scena e l’altra, sia il preludio dal Tristan und Isolde di Wagner, vero emblema dell’amore impossibile che scandisce i momenti in cui potrebbe scattare quell’intesa che viene continuamente procrastinata.
Al termine lo stesso pubblico che riempiva il  Teatro Santa Chiara si è trovato spiazzato sul finale e, mancando il consueto applauso liberatorio a chiusura del sipario, si è sciolto solo al riapparire degli attori a proscenio.

Davide Cornacchione 13 dicembre 2008