
Protagonista Carmela Remigio
Il totem di Maria Callas permea La Vestale di Gaspare Spontini, allestita dalla Fondazione Pergolesi-Spontini al Teatro Alighieri di Ravenna nell’ambito della Stagione teatrale 2025 e coprodotta con Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Verdi di Pisa.
Una scelta originale intrisa di raffinatezza scenica è quella del regista Gianluca Falaschi che ha colto e rappresentato con gusto e ricercatezza il destino che accomuna Giulia, protagonista de La Vestale, alla mitica Divina: Giulia è costretta a rinunciare all’amore per preservare la purezza del suo stato da consacrare alla Dea Vesta, Maria Callas è in lotta con la sua identità di donna in nome dell’arte. Il parallelismo è ben spiegato: il canto per Maria Callas è qualcosa di divino, un atto sacro e di connessione al sovrannaturale, così come il fuoco sacro che la Vestale è chiamata a proteggere è qui inteso come il fuoco dell’arte, della musica, della responsabilità dell’artista verso gli autori e i personaggi da lei interpretati e verso il pubblico che la venera. Sulla scena, Giulia agisce su due livelli, con il ruolo sacro di Vestale e con quello personale di Maria Callas che vive in duale conflitto con sé stessa, combattuta tra desiderio e sacro dovere di artista. La dualità è rappresentata con sovrapposizione di azioni sceniche: una reale, agita sul palco, altre filmiche ritraenti la protagonista mentre si aggira in Teatro volteggiando sullo sfondo di ampi e luminosi palchi, con regale destrezza e chiaro appagamento dell’animo.
L’ispirazione di Falaschi rimanda chiaramente all’edizione scaligera dell’opera spontiniana prodotta da Luchino Visconti nel 1954 e che vide la Callas come interprete principale. Il rimando è al commento che il regista milanese de Il Gattopardo espresse sull’opera: “Una Norma neoclassica con un lieto fine”. E in scena aleggia non soltanto l’aura di Norma, ma anche quella di Medea, di Giulia e di tanti altri personaggi dell’opera lirica interpretati dalla Divina con il suo connaturato piglio regale che l’hanno resa icona inconfondibile di eleganza e raffinatezza, al pari di una Audrey Hepburn o Grace Kelly. Sicché i costumi realizzati per Giulia come per la Gran Vestale e il Coro di Fanciulle e Vestali sono abiti lunghi ed eleganti realizzati in lucente tessuto setoso, bordati di strass e dai colori più raffinati: dal grigio e nero all’indaco, dall’oro brunito al grigio verde. Ogni particolare rievoca lo stile e l’inconfondibile classe di Maria Callas, anche lo chignon alto, fermato con coroncina di strass e le tre collane di perle bianche che le coronano il lungo collo. Nella messinscena, l’artista è rappresentata nell’atto di scapigliarsi, di spogliarsi dei gioielli e degli abiti per indossare quelli terreni di donna innamorata; alla fine rimarrà con il solo abito da diva, simbolo vuoto dell’identità personale consumata dall’arte, dal palcoscenico e dal suo pubblico.
Bravo è Falaschi per aver rievocato con efficacia scenica e forte impatto visivo l’evento mondano seguìto al debutto della Callas all’Opera di Parigi nel 1958, di cui è notoriamente diffusa e custodita negli archivi la registrazione di Casta Diva, da Norma di Bellini; evento per il quale la Divina indossò un elegante abito di sartoria e gioielli di elevato valore.
La celebrazione della Diva prende avvio in un’ampia e luminosa sala tappezzata da lunghi veli bianchi che fanno anche da quinte trasparenti tra il palco e la platea.
La rappresentazione ricalca la première del 15 dicembre 1807 allestita a Parigi presso l’Accadémie Impérial de Musique, sicché il cast è obbligato a confrontarsi, con buon esito a ben dire, con il libretto in lingua francese scritto da Victor Joseph Étienne de Jouy, all’epoca rifiutato da Cherubini e Méhul ma ben accolto e rivestito di buona musica dal compositore marchigiano. L’esito musicale è una composizione maestosa dalle ampie parti corali e orchestrali, dai recitativi lunghi e dagli ariosi a volte ampollosi che mettono in mostra idee melodiche cantabili e di buon gusto che non sempre trovano, tuttavia, una continuità di sviluppo. Bella è l’Ouverture sinfonica nella classica forma ABA. E’ questa una pagina in cui a idee melodiche dal sapore mesto e dolente, anticipanti il turbamento della protagonista Giulia, dibattuta tra l’amore per Licinio e il dovere di culto a Vesta, ne seguono altre dai toni più freschi ed esaltanti costruite in progressione armoniche ascendenti come per aspirazione e coronamento di un ambito sogno. Singolare è l’apparente citazione rossiniana tratta dal finale del primo atto del Barbiere di Siviglia: “Mi par d'esser con la testa. In un'orrida fucina” posta a conclusione del secondo atto de La Vestale ed estratta dal concertato tra i più belli del repertorio operistico italiano. E ciò basti per confermare la levatura artistica di Spontini, alla cui idea tematica Rossini attinse come prestito musicale! Nel complesso, la musica spontiniana, pur nella prolissità d’espressione, estesa con svariati pezzi di danza e balletti, contiene un mix di bellezza e grandezza diversamente apprezzabile dal pubblico odierno, per il mutato gusto rispetto a quello parigino in epoca napoleonica. In quest’ottica vanno considerate le coreografie realizzate da Luca Silvestrini in un palcoscenico dallo spazio esiguo, ove non è stato possibile comporre figurazioni artistiche più armoniose e attraenti rispetto a quelle rappresentate.
Passando al cast, ben si apprezza l’interpretazione della protagonista Giulia di Carmela Remigio, che conquista il pubblico riscotendo applausi anche a sipario aperto per le arie tra le più belle e ricche di pathos: “Toi que j’implore avec effroi”, seguita da “Impitoyables dieux!”. Sono pezzi centrali dell’opera che necessitano di una prestazione scenica caratterizzata da una forte e intensa carica emotiva da parte dell’artista, chiamata a rappresentare tormenti, ansie e dolore della protagonista nei momenti in cui essa implora la Grande Sacerdotessa, perché l’aiuti a soffocare il desiderio d’amore per Licinio, e quando si rivolge agli Dei perché sospendano la vendetta su di lei per aver aperto la porta del Tempio e accolto l’adorato mortale fra le sue braccia. L’impegno vocale e interpretativo esibito da Carmela Remigio per l’intera recita è di indiscusso livello artistico.
Colpisce per flessibilità e fluidità vocale l’interpretazione di Bruno Taddia, che sostiene la parte del generale romano, Licinio, con bell’aspetto fisico e disinvolta azione scenica. La brillantezza del suo timbro spicca sin da subito, nel duo del primo atto: “Quand l’amitié seconde mon courage”.
Corposa e ben centrata è la voce di Lucrezia Venturiello, nei panni della Gran Vestale la quale, conscia dell’amore che turba l’animo di Giulia, dipinge l’amore come il peggiore fra i mali incantando l’uditorio con la bell’aria “L’Amour est un monstre barbare”.
Perfetta è la risonanza vocale di Adriano Gramigni, il Sommo Sacerdote che condanna Giulia alla sepoltura per aver ceduto all’amore e causato l’estinzione del fuoco sacro per omissione di controllo. Lui stesso sospenderà l’esecuzione della pena quando un fulmine riaccenderà il fuoco sull’ara di Vesta. Buona è la prestazione vocale di Joseph Dahdah, come Cinna.
Incantevole è la vocalità del Coro di Fanciulle e Vestali nel terzo atto “Tant de jeunesse, tant de charmes”, così come è apparso abbastanza preparato nelle mani del Maestro Corrado Casati l’intero Coro del Teatro Municipale di Piacenza. Ciò nonostante, alcune sbavature sono emerse nel rapporto Orchestra – Coro probabilmente per l’ampia distanza posta tra il Direttore d’orchestra e il Coro posizionato nel fondo del palcoscenico ove lunghi tendaggi bianchi assorbenti le sonorità in palco, ostacolavano il sincronismo tra le parti.
La Direzione dell’Orchestra Corelli, affidata alla bacchetta di Alessandro Benigni, se da un canto ha favorito il dispiegamento delle belle idee tematiche spontiniane, dall’altro è apparsa appena faticosa per la tenuta della compattezza e omogeneità sonora in oltre tre ore e mezza di recita.
A fine spettacolo, gran successo per tutti, tributato dal pubblico con calorosi applausi!