Recensioni - Opera

Innsbruck: prontuario di pose barocche per l’Amazzone Corsara di Carlo Pallavicino

Alberto Allegrezza propone una messa in scena monotona per un’opera che in realtà è commedia dell’arte in musica

Per la seconda opera in programma alle Innsbrucker Festwochen der alten Musik, arriva ai Kammerspiele della nuovissima Casa della Musica di Innsbruck “L’amazzone Corsara”, del salodiano Carlo Pallavicino su libretto di Giulio Cesare Corradi.

L’opera ebbe la sua prima rappresentazione a Venezia al Teatro Grimano di SS. Giovanni e Paolo il primo Febbraio 1686.

Si tratta, a dispetto del titolo accattivante e alla moda, di un classico intrigo da commedia dell’arte in cui la parte storica e guerresca a cui allude il titolo fa solo da “scenario” per un intreccio mutuato in gran parte dalle convenzioni teatrali dell’epoca e in cui non si fa fatica a scorgere i tipi della commedia dell’arte.

La nostra Amazzone ha dunque già fin dall’inizio finito di essere sia amazzone che corsara e si picca di rifiutare l’amore del Re di Danimarca. (In realtà di nordico rimane solo qualche nome). Accanto a questa coppia che possiamo definire “matura”, abbiamo la coppia più giovane ostacolata dal “pedante” o “Balanzone” di turno, che ovviamente vorrebbe spedire la figlia in convento. La prima è un’innamorata ritrosa e a tratti bizzosa, la seconda è scaltra e intelligente. I paragoni si sprecano: dalla Bisbetica Domata di Shakespeare – ma presa di sana pianta dall’italiano Ludovico Ariosto – alle numerose e litigiose sorelle goldoniane di qualche decennio dopo. All’inizio troviamo addirittura un maestro di scherma e un maestro di danza e improvvisamente ci viene in mente che “Il Borghese gentiluomo” di Moliere è di solo sedici anni prima.

Immancabile nella commedia dell’arte la coppia di servi scaltri e intelligenti che finiscono per sposarsi specularmente insieme ai padroni. E anche nella nostra Amazzone non mancano, così come nei recitativi si sprecano gli “a parte”, ovvero interventi dei personaggi che parlano direttamente al pubblico rivelando i propri veri sentimenti, cosa che sarà poi cifra distintiva del teatro veneziano del settecento.

Il tutto si conclude ovviamente, dopo non poche peripezie più raccontate che vissute, con una riconciliazione e tre matrimoni.

Una commedia insomma, appena condita da un titolo esotico e di richiamo con qualche concessione alla grandiosità scenografica, infatti ad un certo punto subentra anche il “fantastico” quando la protagonista viene ghermita e rapita da un grande uccello per poi essere ovviamente liberata. L’opera barocca trionfava sul teatro di prosa anche grazie agli effetti speciali e alle macchine sceniche.

Nella messa in scena di Alberto Allegrezza prevale una scelta filologica relativa allo studio delle “pose sceniche” del teatro barocco, per cui troviamo i protagonisti costantemente impegnati nello sciorinare una serie di gesti e pose che risultano anche interessanti all’inizio, ma che alla lunga perdono di interesse e ingessano gli interpreti in una ripetitività che si fa stucchevole.

È vero che il teatro barocco era un’espressione del mondo ideale per cui il “reale” non poteva che essere “ideale” e pertanto “posa”, sarà il bavarese Franciscus Lang agli inizi del settecento a definire una serie di pose del teatro barocco in questo senso. L’operazione di Alberto Allegrezza sarà perciò anche filologicamente e accademicamente pregnante, ma risulta teatralmente inefficace e alla lunga purtroppo monotona.

Allegrezza, che firma anche scene e costumi, veste gli interpreti con colorati abiti seicenteschi di buona fattura, che suggeriscono, nei loro colori improbabili e nella scelta delle stoffe da “teatro dei pupi”, un approccio ironico che però non si realizza. La scena è costituita da tre quinte mobili ricoperte di teli stampati, che ruotando rivelano varie ambientazioni: da una libreria iniziale (che svela l’approccio libresco della messa in scena), ad un prato, ad una torre, fino al grande uccello che ghermisce la protagonista. Tutto accurato e ben organizzato, a volte suggestivo, ma l’impressione generale che se ne ricava è quella di una scenografia adatta ad un teatro per l’infanzia.

Non mancano certo molte cose azzeccate come i quattro servitori in parrucca bionda che muovono la scena e partecipano sporadicamente all’azione in modo ironico e disincantato (Ascanio Albertini, Daniele Pascale, Niccolò Roda, Angelo Zarbo), oltre che a qualche reazione appropriata e divertente da parte degli interpreti scenicamente più spigliati. Nel complesso però manca lo “spettacolo” che è fondamentale nel teatro barocco se non ci si vuole limitare appunto ad un’operazione filologica.

In realtà, e mi sembra doveroso sottolinearlo, la vera operazione filologica oggi nel riproporre una messa in scena barocca sarebbe proprio quella di creare un grande spettacolo per il pubblico, una vera serata di intrattenimento, proprio come era a fine seicento a Venezia, dove, vista la concorrenza, bisognava attirare pubblico pagante a teatro con dei grandi e moderni spettacoli. Oggi la vera filologia sarebbe proprio questa: riproporre un vero, completo e contemporaneo spettacolo, in cui la musica barocca è parte della fondamentale macchina teatrale per cui è stata composta e pensata.

Anche perché va dato atto alle Innsbrucker Festwochen der alten Musik di aver raggiunto dal punto di vista musicale e interpretativo livelli di assoluta eccellenza.

Tutta da lodare infatti la parte musicale, con Luca Quintavalle che concerta abilmente la partitura ricavando sonorità precise e puntuali, variando abilmente i ritmi e staccando tempi sempre corretti nella grande varietà di situazioni musicali proposte dal compositore.

Giovane e vocalmente di rilievo nel suo complesso la compagnia di canto tutta. Ci è piaciuta particolarmente Hannah De Priest, che dà al suo personaggio di Gilde la giusta verve comica, supportata da una voce ampia e ben gestita. Helena Schuback e Julian Rohde sono i due protagonisti. La prima non coinvolge fino in fondo, mentre il secondo, dotato di voce chiara e armonica convince pur ingessato dalla messa in scena. Completano ottimamente il cast Shira Patchornik, fresca e spigliata interprete di una parte en travestì, Rocco Lia, basso autorevole e dotato di un centro armonico e molto plastico, Marie Théoleyre, simpatica servetta a cui gioverebbe un approfondimento della dizione italiana e Rémy Brès-Feuillet, svolazzante servitore che riesce a incantare con una voce controtenorile pulita e omogenea.

Grande successo per tutti nel finale.

Raffaello Malesci (20 Agosto 2022)