Recensioni - Opera

Intervista a Dave Monaco

Il giovane ma già affermato tenore racconta della sua carriera e dei suoi progetti futuri

A tu per tu con Dave Monaco, uno dei tenori emergenti della giovane generazione, alla vigilia di quella che, per lui, sarà una lunga estate calda. Ce la siamo fatta raccontare, tra ricordi e progetti.

Nemmeno trent’anni e unagenda che, per densità e importanza, La colloca tra i protagonisti assoluti della scena attuale. Come ci si sente?

È una grandissima responsabilità, ma anche un immenso onore. Tutto questo è il frutto di anni di studio, di impegno costante e di tanti sacrifici. Sono profondamente grato per le opportunità che mi vengono offerte e, per come sto lavorando, spero davvero di essere all’altezza di tutte le sfide che mi attendono.

Partiamo dallinizio. A soli ventidue anni, il Suo nome si impone grazie anche allaffermazione in concorsi internazionali, tra cui lEttore Campogalliani, dedicato al grande didatta mantovano. Come ha vissuto e che ruolo hanno giocato, nel Suo percorso artistico, quei riconoscimenti?

Il concorso Ettore Campogalliani ha rappresentato per me un vero e proprio battesimo artistico: è stato il primo a riconoscermi ufficialmente un premio e per questo lo ricordo con grande affetto e gratitudine. Si svolgeva al Teatro Bibiena di Mantova, uno dei teatri più belli che abbia mai visto — e ne ho visti molti. A rendere ancora più speciale quell’esperienza è stato l’incontro con il Maestro Leone Magiera, che da quel momento è diventato un punto di riferimento importante nel mio percorso. Mi ha offerto consigli preziosi, suggerimenti determinanti e anche opportunità concrete. Per questo sarò sempre profondamente grato a quel concorso.

Nella Sua formazione, centrali sono lincontro con Leone Magiera e Salvatore Fisichella, così come la frequentazione dellAccademia Rossiniana diretta da Ernesto Palacio. Cosa Le hanno lasciato e come hanno contribuito queste esperienze, a fare di Lei lartista e linterprete che oggi è?

Come accennavo, il Maestro Leone Magiera ha avuto un ruolo fondamentale nel mio percorso: è stato lui ad aprirmi gli occhi su una precisa prassi esecutiva e, al tempo stesso, a offrirmi opportunità concrete che hanno segnato il mio cammino. Ma il mio vero mentore è il Maestro Salvatore Fisichella. Ho iniziato a studiare con lui durante il periodo del Covid e lui, fin da subito, ha intuito che la mia voce aveva una naturale inclinazione verso il repertorio rossiniano. Abbiamo lavorato con grande intensità in quella direzione, molte delle occasioni che oggi vivo nel mondo rossiniano le devo proprio a lui. È stato uno degli interpreti belliniani più straordinari del suo tempo, ma come maestro è persino più impressionante: ha una conoscenza tecnica profonda e sa guidare ogni cantante verso l’essenza più autentica della propria voce. L’Accademia Rossiniana è stata invece il punto di partenza concreto di un percorso che oggi mi sta regalando grandissime soddisfazioni. Quando il Maestro Ernesto Palacio mi ha ascoltato in audizione nel 2022, ha mostrato subito interesse per la mia vocalità e prima ancora dell’inizio ufficiale dell’Accademia ha suggerito il mio nome a diversi teatri che mi hanno poi chiamato per interpretare ruoli rossiniani. Questo per me è stato un segnale forte di fiducia e una spinta enorme. L’esperienza dell’Accademia è stata magnifica: sono profondamente legato a Pesaro e al Rossini Opera Festival. Consiglio a tutti i giovani cantanti, soprattutto quelli che amano Rossini, di andare a respirare l’atmosfera unica che si vive lì, anche solo come ascoltatori. È un luogo magico, dove la musica e l’eredità rossiniana si sentono in ogni angolo.

Da subito, la Sua voce si dirige verso il repertorio belcantistico, al quale Lei ha già prestato interpretazioni di assoluto rilievo che Le sono valse apprezzamenti come tenore di fine natura vocale ma di impetuosa eleganza”. Cosa significa, oggi, confrontarsi con questo tipo di repertorio e com’è cambiato, a Suo avviso, lapproccio a queste pagine?

Oggi ho la sensazione che l’orecchio del pubblico generalista tenda ad appiattirsi un po’. Spesso noto una certa insofferenza verso quei cantanti che propongono un’interpretazione diversa dalla linea consueta o che si pongono sullo spartito con un atteggiamento aderente alla prassi esecutiva storica del Belcanto. Questo accade in particolare quando il confronto avviene con cantanti abituati al repertorio verdiano o pucciniano, in cui la vocalità richiede altri pesi e altre tensioni. Io credo profondamente che il Belcanto debba andare a braccetto con un approccio più leggero, aggraziato ed elegante, che debba distinguersi chiaramente dalla vocalità romantica. Non che Verdi o Puccini non siano ‘ bel canto’, ma se vogliamo osservare con una lente d’ingrandimento il repertorio propriamente detto belcantistico — quello di Bellini, Donizetti, Rossini — dobbiamo riconoscere che si tratta di un mondo a parte, con orchestrazioni e scritture vocali che richiedono una cura e un approccio specifici. Oggi, purtroppo, si tende a uniformare tutto: c’è un’omogeneizzazione dell’approccio interpretativo che, a mio avviso, è dannosa. È importante invece restituire a ogni repertorio la sua identità, il suo linguaggio. In questo senso, credo che i festival italiani svolgano un lavoro prezioso: proprio perché nascono nel contesto culturale che ha dato origine a questi compositori, si fanno promotori di una lettura più rispettosa delle differenze tra i vari stili. Ed è su questa linea che sento di trovarmi pienamente.»

Il debutto avviene nel segno di Bellini, con Osburgo ne La Straniera, al Maggio Musicale Fiorentino, per poi approdare al Nemorino de Lelisir damore. Ci racconta qualcosa di quelle esperienze così significative?

Il mio debutto teatrale è avvenuto grazie all’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino. Firenze è la prima città alla quale mi sento davvero legato: mi ha regalato emozioni profonde e ha segnato l’inizio concreto della mia carriera. Sono entrato in Accademia grazie alla lungimiranza e alla sensibilità di Gianni Tangucci, una figura che considero fondamentale non solo per me, ma per l’intero panorama teatrale italiano. Quando sono arrivato avevo tante certezze ma pochi strumenti, sia dal punto di vista tecnico che musicale. Ne sono uscito con meno certezze ma con molti più strumenti e questa trasformazione ha tracciato i confini dell’artista che sono oggi. Lì ho debuttato come Osburgo ne La Straniera, diretto da Fabio Luisi durante il Festival del Maggio: un’esperienza bellissima. Sono seguiti altri ruoli importanti come Nemorino ne Lelisir damore, nell’estate del 2019, una parte che mi ha dato grandi soddisfazioni. È stato un periodo molto intenso, anche fisicamente ed emotivamente. Continuavo a vivere a Bologna, quindi ero pendolare: prove, viaggi, lavoro costante, sette giorni su sette. L’accademia e le produzioni correvano su binari paralleli e riuscire a reggere quel ritmo è stata una vera scuola di vita. Ma è proprio da lì che mi sono costruito quella ‘ corazza’ che oggi mi permette di affrontare con solidità le grandi produzioni nei teatri più importanti. E di questo sarò sempre grato all’Accademia e a Gianni Tangucci.

A spiccare è però lintima, totale affinità con Rossini. Il prossimo 5 giugno debutterà doppiamente al Teatro dellOpera di Roma, prima volta su quel palco, ne LItaliana in Algeri, sotto la direzione di Sesto Quatrini con una celebrata regia di Maurizio Scaparro ripresa da Orlando Forioso. Come ha costruito il Suo Lindoro?

Lindoro è sicuramente uno dei personaggi più impegnativi del repertorio brillante, forse il più difficile da affrontare per un tenore. È una sfida affascinante che sto cercando di affrontare costruendo il personaggio su misura per la mia voce, mettendo in risalto, vocalmente, quella linea esotica che Rossini ha saputo intrecciare in LItaliana in Algeri — un tratto che, nel panorama delle sue opere buffe, è quasi unico dal punto di vista tenorile. In scena, sto lavorando per restituire questo aspetto anche attraverso la teatralità, grazie al contributo prezioso del Maestro Sesto Quatrini e del regista Orlando Forioso, che prende il testimone del grande Maurizio Scaparro. Insieme stiamo dando vita a una produzione classica, fedele alla partitura, senza sovrastrutture: raccontiamo LItaliana in Algeri com’è scritta, ed è questo, oggi, un gesto quasi rivoluzionario. Per me è un onore doppio: da un lato, debuttare in un ruolo così complesso e ricco; dall’altro, farlo in un contesto così attento al versante musicale. Lindoro lo sto costruendo con cura, mettendo in luce le mie potenzialità vocali, lavorando sulla tessitura e cercando, allo stesso tempo, di trasmettere tutta la raffinata ironia e l’allure esotica che Rossini ha cucito addosso a questo personaggio straordinario.

A luglio, ad attenderLa, è poi il Festival della Valle dItria di Martina Franca, che in questi anni è diventato il cartellone deccellenza a livello operistico in ambito nazionale, con un clamoroso riscontro di pubblico. Lì, sempre sotto la bacchetta di Quatrini, si cimenterà per la prima volta nel ruolo di Argirio. Cosha rappresentato, per Lei, entrare nei panni di questa figura così complessa e sfaccettata?

Tra gli impegni in arrivo, quello di Argirio al Festival della Valle d’Itria rappresenta forse la sfida più grande. Si tratta di un Rossini serio, un repertorio al quale ho iniziato ad avvicinarmi lo scorso anno con l’Osiride del Mosè in Egitto, nei teatri di Modena, Parma e Piacenza. Ma Argirio è un personaggio di tutt’altro spessore: maturo, autorevole, quasi ieratico. Mi piace pensarlo — e il paragone non credo sia azzardato — come una figura alla Creonte, nella sua rigidità morale e nella sua statura drammatica. Finora ho interpretato ruoli da giovane ardente: innamorati impulsivi, eroi mossi da passioni forti, dal desiderio, dalla vendetta. Argirio invece richiede un altro tipo di maturità interpretativa. E poi c’è la sfida vocale: la tessitura è completamente diversa da quella di Lindoro, più estesa e complessa, ma la sto affrontando con la mia voce, nel rispetto dei miei mezzi e della mia identità vocale. So di poter contare su una squadra artistica che conosco e stimo profondamente. Con il Maestro Sesto Quatrini c’è già un’intesa consolidata, e anche con Andrea Bernard, che ha già lavorato su di me e saprà senz’altro costruire un Argirio credibile, pur essendo io un giovane interprete di 29 anni. Il fatto che Argirio sia il padre, il custode dell’onore e dell’ordine, aggiunge un ulteriore strato di complessità. Ma sono pronto a mettermi in gioco: credo che la crescita artistica avvenga attraverso le sfide, non restando nella propria comfort zone. E Argirio è proprio questo: un passo fuori dalla mia zona di sicurezza, ma sempre all’interno del mio territorio ideale, quello rossiniano.

Infine, in unestate frenetica, ci sarà limmancabile tappa al Rossini Opera Festival, il prossimo 17 agosto, dove si esibirà in due Cantate per voce sola, coro e orchestra presentate per la prima volta nella nuova edizione critica. Tre monumenti assoluti e straordinariamente variegati, in poco più di due mesi. Che opportunità rappresenta, per Lei, poter accostare – quasi in contemporanea – pagine così diverse del genio pesarese?

È un’esperienza straordinaria. Avere l’opportunità, in così poco tempo, di affrontare pagine così diverse tra loro ma tutte intrinsecamente rossiniane è un privilegio raro. Anche nella loro eterogeneità, queste opere rivelano la cifra stilistica di Rossini in modo chiarissimo: e questo ti fa capire quanto la sua musica sia davvero il fondamento, il ‘pavimento’, della tradizione operistica italiana. Tutto ciò che è venuto dopo — anche ciò che ha preso direzioni opposte — poggia in qualche modo su di lui. Rossini è, forse, l’unico compositore che si possa affrontare in modo pieno sia sul versante buffo che su quello serio. Questo lo rende, in un certo senso, il padre della nostra opera lirica. L’approccio a queste cantate — che in passato sono state interpretate da giganti come Flórez e Blake — sarà per me diverso, più “terzo”, come dire: con un intento elegiaco, quasi monumentale. In particolare, Il pianto di Armonia sulla morte di Orfeo è un brano di una bellezza commovente e affrontarlo oggi, nel 2025, nel contesto del Rossini Opera Festival, è una responsabilità enorme ma anche una grande emozione. È una sfida che mi coinvolge profondamente, tanto quanto le opere più celebri.

Il prossimo ottobre, al Teatro Regio di Parma, sarà Fenton in Falstaff al Festival Verdi. Nel 2026 canterà per la prima volta a Toronto e Tokyo, rispettivamente come Almaviva ne Il barbiere di Siviglia e Don Ottavio in Don Giovanni. Il risvolto privato di questa incalzante sequenza di impegni di così alto calibro è, sicuramente, una fortissima pressione emotiva. Come si regge?

La pressione emotiva è una bella rogna, una gatta da pelare — diciamolo chiaramente. Ma cerco di affrontarla con la massima naturalezza. Credo che ignorare un problema lo faccia crescere, mentre guardarlo in faccia ti aiuta a ridimensionarlo. È così anche con l’ansia da prestazione: nel momento in cui la riconosci, capisci che spesso è molto più piccola di quanto sembrasse nella tua testa. Pavarotti diceva che non augurava neanche al suo peggior nemico quell’ansia che c’è prima di salire sul palcoscenico. È un mostro silenzioso, ma inevitabile. Quando ti trovi lì, davanti al pubblico, al direttore d’orchestra, al peso del contesto, ti rendi conto che la paura si dissolve, si trasforma in energia. Affrontarla nella maniera più sana possibile è l’unica via. C’è un passaggio ne LIstrione di Charles Aznavour che per me racchiude tutto questo: “E ancora morirò di gioia e di paura quando il sipario sale, paura che potrò non ricordare più la parte che so già. Poi, quando tocca a me, puntuale sono là, nel sogno sempre uguale.” Ecco, quello è esattamente ciò che viviamo noi artisti. L’importante è non farne una malattia mentale: il pensiero va governato, non lasciato libero di dominarti. E tutto diventa più umano, più possibile.