Recensioni - Opera

Intervista a Francesca Pia Vitale

Un soprano dal repertorio eclettico che in questi mesi spazia daTancredi a Rigoletto e ad Orfeo ed Euridice

Acuti dardeggianti, forgiati con l’oro chiaro di una pasta vocale capace di addomesticare, con spavalda naturalezza, anche i riccioli più capricciosi della scrittura, e un registro medio grave traboccante di pathos. A dispetto della sua giovane età, Francesca Pia Vitale vanta già al suo arco le numerose frecce di una fitta galleria di personaggi complessi, sfaccettati, sfuggenti che ne hanno fatto, nel panorama internazionale, uno dei talenti più luminosi della generazione emergente. Recentemente l’abbiamo applaudita come Amenaide nel Tancredi rossiniano che ha caratterizzato una delle produzioni più acclamate del Festival 2025 della Valle d’Itria. Ma molte altre sono le figure che il pennino della sua voce ha vergato sui palcoscenici più prestigiosi: Epitide in La Merope di Terradellas in una trionfale tournée europea che ha toccato il Liceu di Barcellona, Teatro Real di Madrid, Staatsoper Unter den Linden di Berlino e Theateran der Wien, Gilda in Rigoletto alla Staatsoper Hannover e all’Opéra Bastille, Musetta in Bohème al Petruzzelli di Bari e all’Opéra de Bordeaux, Giulietta ne I Capuleti e i Montecchi nei teatri di Padova, Como, Treviso, Rovigo e Jesi e al Massimo di Palermo, Norina in Don Pasquale al Regio di Torino, Adina in L’elisir d’amore all’Opéra de Monte-Carlo. Potremmo continuare a lungo.
Ora, ad attenderla è una stagione da batticuore, a partire da un Rigoletto in cartellone i questi giorni alla Scala di Milano dove la regia, firmata da Mario Martone, promette di disegnare addosso al suo strumento vocale una Gilda di rara intensità.
Noi l’abbiamo incontrata, tra prove e valigie sempre pronte.

Rigoletto è per Lei una vecchia conoscenza, a partire dal Suo debutto come Paggio. Ora presterà di nuovo la Sua interpretazione alla figura di Gilda. Quali sfumature, quali tratti emotivi intende mettere in rilievo per esaltare la sventurata figlia del gobbo, anche attraverso la lente impressa dalla regia di Martone?

Nella visione di Martone, Gilda ha una forza interiore che viene fuori attraverso atteggiamenti di ribellione, provocatori nei confronti di un padre del quale non sa se può davvero fidarsi. È una ragazza con il bisogno bruciante di vivere pienamente. Tutto in lei è amplificato, non sa dosare i suoi sentimenti: rabbia, gioia, frustrazione, curiosità, amore, Gilda li sente tutti all'eccesso. E sarà proprio l'eccesso d’amore a disarmarla, a consumarla fino a farla anelare al sacrificio. La cosa che più mi sconvolge è che affronta tutto con estrema consapevolezza e lucidità: non chiede giustizia per sé, chiede perdono per gli altri. Ed è in questo paradosso che ritrovo la sua vera forza, quella di restare fedele fino in fondo a ciò che sente, facendosi divorare dall'amore.

Nella Sua biografia, La Scala non è solo uno dei massimi riferimenti teatrali a livello internazionale, ma è anche il luogo che ha visto il Suo talento formarsi e prendere il volo. Com’è tornare su quel palcoscenico non più da allieva dell’Accademia ma da interprete affermata?

Quello del Teatro alla Scala è il palcoscenico che mi ha vista debuttare, è dove tutto è iniziato, per cui ritornarci è come tornare a casa. Dietro le quinte ritrovo un legame speciale con maestri e maestranze tutte, ma ciò che ogni volta mi emoziona è la maestosità potente del suo sipario. Quel grande drappo rosso... Ricordo la prima audizione per l'Accademia, ero affascinata nel pensare a quanti e quali grandi artisti avevano provato quelle stesse emozioni, tutte silenziosamente custodite da quel manto. Ogni volta che ritorno sento questo valore speciale, quasi sacro.

Rimaniamo per un attimo sugli anni di apprendistato. Cosa ricorda come esperienza determinante nel contribuire a delineare quell’orizzonte che l’ha portata, in pochissimi anni, ad affermarsi come una delle voci più interessanti del panorama emergente? Chi sono state le figure più significative che hanno costellato il suo percorso umano e artistico?

L'Accademia mi ha dato la possibilità di debuttare per la prima volta su un palcoscenico e, per questo, non sarò mai grata abbastanza. Non posso non citare tutti coloro che hanno creduto in me fin dall'inizio: la commissione delle prime audizioni, i docenti che mi hanno formata e insegnato la disciplina necessaria per affrontare questo cammino, i coordinatori, i tutor, chi mi ha accompagnato e mi accompagna continuando a sostenermi nel mio percorso professionale. Le opportunità di crescita che ho avuto sono state essenziali per consolidare non solo la mia tecnica ma anche la mia identità artistica. Porto nel cuore i miei mentori, coloro che hanno saputo guardare oltre la voce, spronandomi a cercare sempre la verità nel canto e nella parola. Sono le persone che mi hanno insegnato che la musica non è mai un traguardo, maun viaggio che va vissuto con umiltà, curiosità e profondo rispetto.

A gennaio, un’altra sfida: Orfeo ed Euridice di Gluck, titolo che inaugurerà la Stagione Lirica 2026 del Teatro Regio di Parma, con la regia affidata a Shirin Neshat e con Fabio Biondi alla guida della Filarmonica Toscanini. Dalla sanguigna penna verdiana al più raffinato Settecento, con il suo florilegio di sublimi (e temibili) arie che attendono ad ogni piega l’interprete al varco. Come si sta preparando per affrontare questa partitura unanimemente considerata, per bellezza, audacia, complessità, come un autentico spartiacque nel teatro musicale?

Orfeo ed Euridice richiede una forte personalità vocale e musicale: è una partitura che non permette di nascondersi dietro virtuosismi ma richiede purezza, controllo e un’estrema attenzione al respiro e al suono. C’è però un filo che lega tutto: la parola. È lei a guidare il gesto musicale, a restituire profondità e verità emotiva. Credo che portare un repertorio nell’altro sia molto costruttivo e dia grande consapevolezza. In questo momento vivo un’esperienza veramente preziosa: sto alternando le prove di Orlando di Händel al Teatro Alighieri di Ravenna alle recite di Rigoletto, questo dialogo tra mondi così diversi mi arricchisce ogni giorno. Portare un po’ di Gluck e Händel dentro Verdi, e viceversa, mi aiuta a trovare un equilibrio tra rigore e passione, misura e istinto. È un confronto continuo tra ordine e abbandono che mi sta insegnando moltissimo.

Per l’occasione, l’impronta registica avrà lo sguardo di una donna che da anni fa della sua arte uno strumento di contestazione e di dissidenza contro il regime iraniano e, più in generale, contro ogni forma di violenza e di prevaricazione. Cosa dovremo aspettarci, da questa lettura interpretativa?

Non conosco Shirin Neshat personalmente ma attraverso la sua arte ho percepito una potenza, una forza che riesce a nascere sia dal dolore che dalla libertà. Le sue immagini parlano di emancipazione, di identità, di coraggio, e credo che questo linguaggio si sposi perfettamente con il mondo di Gluck. Mi aspetto una lettura profonda, essenziale e carica di significato, in cui il mito diventi un pretesto per parlare dell’essere umano, delle sue fragilità e della sua capacità di rinascere attraverso l’amore e la perdita. Non ho dubbi sul fatto che sarà un'esperienza profonda, non solo scenicamente ma anche emotivamente.

Non possiamo evitare di accennare al Tancredi che l‘ha vista furoreggiare al Festival della Valle d’Itria, quest’estate. Ci racconti come ha vissuto questa esperienza, in scena e dietro le quinte.

Tancredi al Festival della Valle d’Itria è stata un’esperienza davvero speciale, anche perché segnava il mio debutto rossiniano. Affrontare per la prima volta un ruolo come quello di Amenaide, in un contesto così prestigioso, è stato emozionante e al tempo stesso una grande responsabilità. Martina Franca ha un’atmosfera unica: lì sembra che il tempo si fermi e che tutto ruoti intorno all’opera. Si lavora in profondità, con un’attenzione minuziosa a ogni dettaglio, e questo permette di entrare completamente nel personaggio. Per me è stato un banco di prova importante: ho scoperto nuove sfumature della mia voce e una parte di me che non conoscevo. È un’esperienza che mi ha arricchita, professionalmente e umanamente.

Un tempo le grandi voci erano autentiche icone del jet set, dive in scena e fuori scena. Oggi il panorama è cambiato e, con esso, il tipo di attese da parte del pubblico, la sua attenzione verso l’interprete. Le sarebbe piaciuto vivere e cantare in quegli anni? Più in generale, qual è il Suo rapporto col pubblico? C’è un teatro, o un Paese, a cui si sente particolarmente legata?

Siamo in una società che vive di live, reel e stories: il pubblico vuole vedere, conoscere, capire, e credo sia giusto così. Oggi chi ascolta desidera entrare in contatto con l’artista, sentirne la verità, più che osservarlo da lontano. Penso che il divismo, nel senso tradizionale, appartenga al passato: quello che conta oggi è l’autenticità, la capacità di dare attraverso la musica quanto di più autentico c’è in noi. Mi sento legata a tutti i teatri, in tutti ho lasciato un frammento di me, ma un posto speciale nel cuore lo riservo al Teatro San Carlo: è lì che ho visto la mia prima opera quando ero adolescente. È il teatro delle mie origini, spero di poter cantare lì presto!

Qual è il ruolo che Le piacerebbe debuttare tra quelli non ancora affrontati?

Ci sono tantissimi ruoli che desidero interpretare ma se proprio devo indicarne uno allora dico Norma. È l'opera che mi ha fatto scoprire e amare questo mondo e sogno il giorno in cui potrò affrontarla e donarle la mia voce con la maturità, l'esperienza e la consapevolezza che un ruolo come questo richiede.