Recensioni - Opera

Intervista a Marigona Qerkezi

Il giovane soprano, prossimo al debutto in Manon Lescaut al Teatro Petruzzelli ci parla della sua carriera

Una delle voci che maggiormente incideranno nella storia dell’Opera dei prossimi decenni. Una storia personale fatta di dolore e di radici salde, e un talento troppo precoce e scalpitante per non essere ill segno di un destino già tracciato. Marigona Qerkezi è oggi un giovane soprano dall’agenda sempre più fitta. Tra qualche ora è attesa al Teatro Petruzzelli di Bari, dove debutterà in Manon Lescaut di Puccini sotto la direzione di Francesco Cilluffo. L’abbiamo rubata alle ultime prove per uno scambio di battute su carriera, famiglia,  destino e progetti futuri.
 

Signora Qerkezi, partiamo dall’inizio. Figlia d’arte, con il canto trasmessoLe da Sua madre, importante mezzo-soprano, insieme al latte materno. Con il senno di poi, quanto è stato importante, per Lei, il contesto familiare in cui ha vissuto fin dalla più tenera età, nel determinare il Suo futuro di artista?

Il contesto familiare è stato determinante. Crescere in una famiglia in cui la musica era il linguaggio quotidiano ha fatto sì che il canto non fosse mai una disciplina estranea da apprendere, ma un modo naturale di esprimermi. Merita Juniku, mia madre, è stata il primo modello di artista che ho avuto davanti agli occhi. Mio padre invece era immerso nel mondo della moda e dei costumi teatrali. Così si sono anche conosciuti tra di loro e insieme mi hanno trasmesso un amore profondo per l’arte e la musica. Ho respirato la loro dedizione, disciplina e il rigore nel lavoro e questo ha forgiato la mia identità professionale fin dall’infanzia. Mi ritengo molto fortunata di poter ancora studiare, approfondire e farmi consigliare da mia madre e spero che mio padre, che è il mio angelo custode, sia fiero da lassù.

Nella Sua biografia artistica, insieme alla rapidità di una carriera ormai spiccatamente internazionale nei maggiori teatri del mondo, colpisce il dato della precocità. Talento scalpitante sin dagli anni dell’infanzia, ben presto consacrato in ruoli e in titoli da far tremare i polsi, su tutti quella scintillante Regina della Notte che l’ha rivelata al grande pubblico, insieme alla Contessa di Almaviva. Che ruolo ha avuto, nella Sua evoluzione di interprete, il lavoro di scavo nel giardino-labirinto del teatro mozartiano?

Mozart mi ha sempre affascinato, sia come cantante sia come flautista. La sua scrittura richiede una pulizia tecnica assoluta, un controllo del fiato e dell’agilità che diventano un banco di prova imprescindibile per qualsiasi cantante. Interpretare Mozart mi ha insegnato l’importanza della purezza stilistica e della capacità di scolpire il suono con esattezza, qualità che oggi porto con me anche nel repertorio belcantista, romantico e verista.

Fondamentale, inoltre, è stato nella Sua carriera il riconoscimento ottenuto in importanti competizioni in cui le Sue qualità vocali si sono imposte: Leyla Gencer Opera Competition e “Magda Olivero” International Competition, solo per citarne alcune tra le più significative, a cui, nel 2023, si sono aggiunte la nomina come Rising Star agli International Opera Awards e la selezione tra le Top Rising Stars di OperaWire. Se il debutto aveva in sé la sensazionalità del prodigio, negli anni è stato sempre più chiaro che in quella vocalità sontuosa, salutata dalla critica internazionale con unanimi parole di consenso, abitava un’artista a tutto tondo. Personalmente, con quali parole descriverebbe la Sua cifra identitaria ad un ascoltatore a chi si accingesse ad ascoltarLa per la prima volta? Come si descriverebbe negli aspetti salienti del suo strumento, del suo timbro e del suo approccio interpretativo?

Ogni vocalità è personale e unica a modo suo e, naturalmente, lo si comprende al meglio ascoltandola dal vivo. Dal punto di vista tecnico, la mia vocalità possiede un’estensione ampia e una solidità che mi consente di affrontare tanto le linee eleganti e raffinate del belcanto quanto la scrittura intensa e teatrale di Verdi o Puccini. Nel mio approccio interpretativo cerco sempre di partire dal testo e dalla musica. Ogni frase, ogni dinamica, ogni accento è un indizio sulla psicologia del personaggio e sulla sua evoluzione. La mia ricerca è quella di un’interpretazione che sia allo stesso tempo rigorosa nella musicalità e istintiva nell’emozione. Per me il canto non è mai solo una questione di vocalità, ma un atto di comunicazione profonda con chi ascolta.

Rimanendo in tema, quello dei concorsi è ancora, a Suo avviso, un palcoscenico capace di intercettare e di selezionare i talenti di domani?

Penso di sì. I concorsi possono essere una grande opportunità per farsi conoscere e misurarsi con il palcoscenico in condizioni strutturate. Io stessa debbo il mio debutto internazionale al primo premio del Concorso Aslico del 2015 che mi diede l'opportunità di debuttare un ruolo prestigioso come quello della Regina della Notte alla Royal Opera House Muscat. Tuttavia, non sempre il mondo del teatro funziona con le stesse dinamiche della competizione e, soprattutto, bisogna sempre ricordarsi che l’arte non è una gara. Credo che la partecipazione a un concorso possa essere stimolante e arricchente, ma dipende molto dalla personalità di ciascun artista. Per alcuni può rappresentare una spinta a dare il meglio di sé sotto pressione, per altri un’esperienza formativa indipendentemente dall’esito. L’aspetto più importante, a mio avviso, è vivere il momento con autenticità, esprimere la propria voce senza farsi condizionare troppo dal giudizio altrui e trarre il massimo da ogni esperienza, sia essa un successo o un’occasione di crescita.

Oggi, nel Suo repertorio più battuto figurano soprattutto i profili delle protagoniste del grande repertorio ottocentesco. Tanto Verdi e parecchio Puccini la fanno da padroni con Mimì, Abigaille, Lady Macbeth, Lucrezia Contarini, Leonora. Come costruisce il taglio interpretativo di un personaggio e, se ne ha, a quali riferimenti del passato sente di ispirarsi maggiormente?

Ogni personaggio nasce da un lavoro di approfondimento che parte dalla partitura e dal libretto. La musica e la parola sono la chiave di tutto: le indicazioni dinamiche, i fraseggi, le scelte armoniche del compositore sono il primo strumento per comprendere la psicologia e l’evoluzione emotiva del personaggio. Poi c’è il testo, la parola cantata, che definisce l’intenzione e il colore di ogni frase. Da lì inizia il mio percorso di costruzione: cerco di immedesimarmi, di trovare un equilibrio tra la mia sensibilità e la verità del personaggio, senza mai cadere nell’artificio. Per quanto riguarda i riferimenti del passato, è sempre difficile rispondere con uno o pochi nomi siccome ci sono moltissimi interpreti che ammiro. La bellezza del nostro mondo e che il teatro è vivo e ogni interpretazione è unica e irripetibile e cerco sempre di trovare una mia verità scenica e musicale.

Nel Suo patrimonio personale, le origini kosovare della sua famiglia approdano in Croazia, dove Lei è nata e si è formata. Che rapporto ha con le Sue radici? Quanto, anche istintivamente, sente di esserne debitrice sia sul piano umano che artistico?

Le radici sono parte integrante di chi siamo. La storia della mia famiglia è quella di un popolo che ha vissuto il dolore della guerra, delle migrazioni, della lotta per l’identità e la libertà. Anche se non ho vissuto direttamente quei momenti, li ho assorbiti attraverso i racconti dei miei genitori e parenti, molti dei quali sono stati martiri di guerra. Essere cresciuta tra due culture, con lingue, tradizioni e sensibilità diverse, mi ha dato un’apertura mentale e una ricchezza interiore che cerco di trasmettere ogni volta che salgo sul palcoscenico.

Cosa ricorda dei Suoi anni di studio? Quali insegnamenti si sono rivelati, per Lei, particolarmente preziosi per la Sua carriera?

Ricordo e continuo a seguire la disciplina e la passione che mi hanno guidato fin dall’inizio, perché lo studio, nel nostro mondo è un processo infinito. Ogni ruolo, ogni esperienza sul palcoscenico è un’occasione di crescita e affinamento e questo è uno degli aspetti più affascinanti della mia professione. Gli insegnamenti più preziosi che ho ricevuto riguardano il senso del rigore, l’importanza di ascoltare la propria voce con consapevolezza e rispetto e la necessità di uno studio costante e metodico. Ho imparato che la tecnica è fondamentale, ma che non deve mai diventare fine a sé stessa: deve essere al servizio dell’espressione e dell’interpretazione. Un altro aspetto è quello di trovare un equilibrio tra preparazione e spontaneità. Sul palcoscenico bisogna essere solidi, ma anche flessibili, pronti a cogliere e vivere l’energia del momento.

Veniamo al presente. Tra qualche giorno tornerà nel suo amato Teatro Petruzzelli di Bari per il debutto in Manon Lescaut sotto la direzione di Francesco Cilluffo. Che rapporto ha con questa donna dalla personalità così sfaccettata e complessa? Che cosa può anticiparci della Sua interpretazione?

Manon Lescaut è un personaggio straordinario, complesso e contraddittorio, ed è proprio questa sua dualità a renderla così affascinante. Nel mio approccio al personaggio, cerco di esplorare tutte le sue sfumature e la verità emotiva. La Manon che porterò sul palcoscenico sarà passionale e intensa, ma anche fragile e vulnerabile. Voglio che il pubblico possa comprendere i suoi tormenti e le sue scelte, anche quelle più discutibili, perché in fondo Manon è una creatura profondamente umana. Musicalmente, la scrittura di Puccini richiede una vocalità versatile: densa di colore, capace di attraversare momenti di lirismo struggente e slanci drammatici senza perdere morbidezza e spontaneità. È una sfida entusiasmante e sono felice di affrontarla in un teatro che amo, sotto la direzione di un maestro sensibile e attento come Francesco Cilluffo e nel bellissimo allestimento di Massimo Gasparon.

Quando percepisce di avere, finalmente, limato un personaggio tanto da ritenerlo pronto per essere portato in scena e condiviso con il pubblico?

Quando sento che la voce e l’interpretazione si fondono naturalmente, senza sforzo, e quando il personaggio diventa parte di me.

Quanto è difficile, nella Sua esperienza, coniugare il proprio approccio interpretativo con quelli degli altri attori della produzione, in particolare con regia e direzione?

È una sfida continua, ma anche il bello del teatro. Si tratta di trovare un equilibrio tra la propria visione e quella del team creativo, mantenendo sempre l’autenticità della partitura e dell’interpretazione.

Qual è il ruolo in cui vorrebbe cimentarsi e a cui non è ancora approdata?

Ho la fortuna di essermi già confrontata con alcuni dei ruoli che sognavo, e in un futuro mi piacerebbe interpretare Turandot. Un ruolo monumentale, vocalmente e scenicamente.