Il regista modenese racconta le sue regie partendo dai suoi ultimi due successi: Trovatore e Tamerlano
Ne seguiamo da anni il lavoro caparbio, sottile, tra pieno e vuoto, tra parola e musica. Recentemente ne abbiamo applaudito il vivaldiano Tamerlano, a spasso per il Teatri dell’Emilia Romagna, e un Trovatore magnifico, nella coraggiosa sottrazione che ricreava uno spazio scenico astratto, simbolico, onirico. Di sé, citando illustri sommi, ama dire che ha impiegato una vita per diventare giovane. Essenziale, nell’onda lunga che la sua firma promette e mantiene ad ogni occasione, Stefano Monti è regista schivo e atipico, dalla creatività nutrita di esperienze interiori, più che di ossessiva proiezione verso il consenso mediatico. I lunghi soggiorni in Cina, la predilezione per la Mongolia. L’attrazione verso i mondi lontani, i silenzi avvolgenti.
L’abbiamo incontrato. Ne è nata una chiacchierata torrenziale, srotolata in un dedalo di aneddoti e spunti fittissimi, rami comunicanti di un unico fiume.
Maestro, partiamo proprio dal Trovatore che lo scorso marzo ha letteralmente trionfato al Municipale di Piacenza.
“Sì. Mi piace sempre lavorare sull’essenzialità, sulla pulizia e sul rigore di una visione che abbia il coraggio di ripulire gli orpelli. Ciò che ho immaginato, rileggendo a lungo il libretto, è qualcosa che quasi involontariamente trovo abbia a che fare con questi nostri tempi, per molti versi sull’orlo dell’apocalisse. Mi sono fatto guidare dal “Mi vendica” che Azucena ripete continuamente, quasi in trance. Come del resto aveva fatto Verdi, anch’io sono partito da lì. Dalla vendetta come impulso spesso irrefrenabile, autodistruttivo, nel privato così come nel pubblico”.
A vestire i panni della zingara era una magnifica Anna Maria Chiuri…
“Un’interprete straordinaria, anche scenicamente. Di un’intelligenza e duttilità rare. Ci siamo incontrati di nuovo, dopo uno splendido Nabucco nel centenario verdiano, messo in scena in Piazza del Campo a Siena. Ancora una volta, l’affinità è stata immediata, come accade solo con i grandi”.
Ed anche in quel caso, come in questo, il focus della regia era sullo sfondo, sulla cornice anziché sullo stretto conflitto tra le principali figure.
“Sì: la dignità, l’integrità, la bellezza di un popolo oppresso”.
Il tutto, con mezzi e risorse risicatissime.
“Oggi il teatro soffre di una congiuntura poco felice e spesso noi registi siamo chiamati ad inventare, a ricreare, con forze davvero misere. Ciò che vedo e che percepisco è il facile rifugiarsi, da parte di diversi colleghi, in un “attualismo” forzato, in nome di una presunta necessità di portare l’opera ad un pubblico più vasto e di rinfrescarla da un passato ingombrante. Io ho sperimentato soluzioni azzardate e audaci già in tempi non sospetti. Non mi fa paura l’osare. Ma ritengo che sia molto più sfidante, e quindi coraggioso, interrogare il testo ed entrarvi nel più assoluto rispetto, senza cercarne l’originalità a tutti i costi”.
Un tema scottante…
“Fintamente. Credo ci sia una sorta di talebanismo imperante secondo il quale o lo spettacolo è attualizzato fino all’estremo o vale poco”.
Si spieghi meglio.
“Io ho la barba bianca e ne ho viste tante. L’ideologia utilizzata come bandiera di una scatola vuota, fine a sé stessa, non credo porti molto lontano. Nel mio passato ci sono molti esperimenti in tal senso: un Britten a Spoleto con la quarta parete praticamente annullata, o un Elisir d’Amore ambientato negli anni ’60. Ho amato queste regie, ci ho creduto e le rifarei. Ma non a tutti i costi”.
Perché?
“Perché i classici attraversano il tempo e lo spazio, sono già là dove noi andiamo, prima del nostro arrivo, in perenne anticipo, perennemente attuali. Non serve altro. A volte la contemporaneità è un appiattimento. Reinventare il vero, storicizzarlo, è ben più complesso che vestire gli interpreti con magliette comprate in qualche superstore. E farlo con un budget all’osso è davvero una sfida. Ma quando funziona, sento che il mio lavoro non è stato vano”:
Con quali emozioni assiste ad una Sua regia?
“Con ovvia trepidazione, ogni volta, tra speranza e paura”.
E quando un dettaglio, una reazione, Le dice che il Suo lavoro è andato a segno?
“Le racconto un piccolo episodio. Il mio Piccolo Spazzacamino di Britten compie 26 anni. A gennaio l’ho portato in scena a Verona, al Teatro Ristori, poi a Tenerife, dove l’avevo già proposto nel 2009 con un successo clamoroso, e dove mi è stato richiesto di nuovo. Qui, ad interpretare il protagonista era un bambino che alla cena conclusiva ho saputo essere orfano di padre. Durante tutto il periodo di prove e di recite mi ero chiesto dove trovasse tanta aderenza con il suo personaggio. Quella tragica nota biografica mi ha spiegato molte cose. A Verona, i complimenti più belli mi sono arrivati da una signora e dalla sua comitiva di ragazzi disabili. Quando mi è venuta incontro dicendomi che avevo regalato loro un’ora di pura felicità ho provato una fortissima commozione”.
Torniamo un attimo all’inizio del Suo percorso creativo. Modenese di nascita, milanese d’adozione. Nel mezzo, l’università a Bologna in anni in cui la città era un cantiere ribollente…
“Sì, Bologna è stata per me l’occasione per spalancare lo sguardo, ma la scintilla per il teatro l’ho avuta nella mia città. C’era, vicino a casa mia, un teatrino sperimentale. Io andavo a pulirne il palcoscenico ed ero catturato dalla magia di quel luogo. Poi, il DAMS mi ha permesso di incontrare la sapienza, il mestiere. Ho avuto insegnanti straordinari, accanto ad altri meno memorabili. Un gigante, imprescindibile nel mio percorso, è stato Virginio Puecher, Maestro nel vero senso della parola. Un carattere spigoloso, difficilissimo, ma di un’umanità grondante. A posteriori io ho capito l’importanza di quel rigore, di quella severità che sono stati per me una ricchezza inestimabile. Dopo la sua morte ci fu più di un direttore artistico che mi disse che lui spesso, a mia totale insaputa, aveva fatto il mio nome per lavori da affidare. Da lui ho imparato cosa sia il lavoro sull’interprete, sul cantante, sul personaggio. Ho lavorato con tanti altri grandi: Ronconi, Crivelli, de Bosio, Strehler, Bolognini. Ma come Virginio non c’era nessuno”.
Nella sua scia creativa è ricorrente la collaborazione con artisti singolari, come Lei acuti, introspettivi, dediti al simbolo. Su tutti, Vincenzo Balena.
Anche con lui il legame che è venuto a crearsi negli anni qualcosa di particolare. In un libro appena presentato al Book City di Milano compare anche un mio contributo. Lo conobbi tantissimi anni fa per una messa in scena al Teatro del Buratto, su testi di Maurizio Cucchi; poi, nel tempo, i nostri cammini si sono sempre più spesso incrociati, a partire da un memorabile Orfeo di Stravinsky, al Festival di Stresa, con le sue opere a sostituire il balletto, e da un percorso liederistico nel segno di Schubert, a Spoleto, occasione in cui lui aveva immaginato lo spazio scenico disseminato di vetrini illuminati.
Cosa l’ha colpita in particolare della cifra poetica di questo artista?
“La profondità, il rigore, la serietà, ma anche la visione sempre contaminata, multiprospettica, dello spazio scenico così come della drammaturgia”.
Torniamo a Lei. Come affronta la concezione di una regia, di un allestimento? Da quali elementi parte?
Come approccio, il primo passaggio è l’ascolto, associato ad una lettura severa e stratificata del libretto. Da lì, ha inizio un lavoro di documentazione sul personaggio, sul contesto, ma anche su risvolti apparentemente laterali che possono fornire intuizioni illuminanti”.
Il Suo recente Tamerlano di Vivaldi, con la direzione strepitosa di Ottavio Dantone alla testa della sua Accademia Bizantina (e con installazioni di Balena in scena) ha furoreggiato in diversi teatri dell’Emilia Romagna.
“La chiave per accostarmi a questo pastiche musicale, sfuggente e tremendamente complesso, l’ho trovata in due elementi: il primo è stato il mio forte legame con la Mongolia, con quella terra insieme dura e traboccante, il secondo è stato il lockdown. Chiuso in casa, senza contatti con il mondo esterno, senza lavoro, senza relazioni, si è accesa la lampadina su quella teatralità oscura che ho voluto rendere meno orfica, meno astrusa, con una serie di danzatori chiamati a fare da ideali controfigure – nei gesti, nell’emotività, nelle reazioni – ai personaggi. Una sorta di teatro al quadrato, in cui i cantanti sono seguiti, come ombre, da mimi”.
Qual è stata, fino ad ora, l’esperienza professionale più feconda nella Sua lunga carriera?
“Quando ho cominciato ho avuto la possibilità di lavorare in Asia per lunghe collaborazioni che in me hanno avuto una risonanza decisiva. Quando nel 2003 ho dovuto pensare di dare corpo a Fly Butterfly, sempre al Buratto, mi è stata preziosa la conoscenza del linguaggio, del codice, dell’impostazione che la lunga permanenza in Oriente mi aveva lasciato: la fascinazione verso il mistero, l’essenzialità, il gusto per il dire senza urlare. Un’altra esperienza fondamentale è stata l’Aida colossale, con migliaia di figuranti, allestita allo Stadio Olimpico di Seoul, dove ho cercato di coniugare sontuosità estrema con estremo intimismo. E ancora, nel 1996, una Turandot al Teatro dell’Opera di Roma, con artisti del teatro nazionale cinese chiamati a metter in scena l’autentica danza delle spade. Sono orgoglioso dei ponti culturali che ho cercato, per tutta una vita, di gettare tra i mondi che caratterizzano il mio immaginario creativo. Credo che il dovere, ma anche il privilegio, del mio straordinario mestiere risieda proprio in questo”.