Recensioni - Opera

L’Olimpiade di Vivaldi alle settimane della musica antica fra filologia musicale e malintesa prassi teatrale barocca

Sobria, coerente ma non completamente risolta messa in scena del rarissimo titolo su libretto di Pietro Metastasio a Innsbruck

Innsbrucker Festwochen der alten Musik”, ovvero settimane dedicate alla musica antica nella capitale del Tirolo, che per l’estate del 2023 hanno un programma completamente incentrato su Antonio Vivaldi, di cui si riprende appunto l’Olimpiade e in seguito La Fida Ninfa.

La direzione dell’Olimpiade è affidata al direttore musicale del Festival, l’italiano Alessandro de Marchi, mentre alla regia abbiamo sempre un italiano, Stefano Vizioli.

Titolo assolutamente dimenticato questa Olimpiade, almeno nella versione di Vivaldi. Infatti il libretto fu poi musicato, com’era uso nella musica barocca, da oltre 70 compositori. L’opera fu messa in scena per la prima volta il 17 Febbraio del 1734 al Teatro Sant’Angelo di Venezia, per essere poi presto messa da parte; d’altronde Vivaldi, per motivi di tempo, l’aveva composta come “pasticcio”, attingendo a piene mani a pezzi già concepiti per almeno altre otto opere, tra cui proprio la Fida Ninfa.

Se vogliamo L’Olimpiade è un manuale di prassi scenica barocca. Un libretto ispirato a varie fonti, sufficientemente complesso e a tratti confuso, con travestimenti, figli perduti, oracoli, amicizia virile, amori impossibili e il lieto fine in stile “opera seria”, con un principe che nel finale si rivela saggio e illuminato. Fra parentesi è sempre un bell’esercizio leggere i riassunti delle opere barocche, che sono un capolavoro di incomprensibilità e un arzigogolo prosastico in cui si perde sempre ed inevitabilmente il filo.

Un “pasticcio” musicale insomma costruito attorno ai cantanti a disposizione del compositore, come era d’uso al tempo, con varie arie prese da altre opere a cui spesso si aggiungevano le famose “arie da baule”, cioè i pezzi forti che ogni cantante aveva sempre con sé e che spesso imponeva di eseguire nell’opera a discapito di altre arie d’autore, ma meno congeniali.

Stefano Vizioli ambienta la vicenda ai tempi delle olimpiadi del 1936, in una sorta di palestra ginnica, ove, durante l’overture, alcuni baldi giovanotti fanno esercizi atletici. Idea simpatica assieme a quella del massaggio nella sauna durante il dialogo fra i due protagonisti, Megacle infatti è un atleta giunto per partecipare ai giochi. A tratti ravvisiamo dell’ironia, a tratti anche un gioco equivoco fra i personaggi, il tutto però si stempera nel prosieguo dell’opera, le idee vanno per così dire in esaurimento e ci si rifugia nello scontato e nel prevedibile. Più che la tensione olimpica in stile Leni Riefenstahl o Jesse Owens ci ritroviamo inesorabilmente nella calma borghese e controllata di “Amore e ginnastica” di De Amicis.

L’organizzazione scenica utilizza sipari decorati, qualche statua greca, vari attrezzi, un balcone sulla destra; nel secondo atto ci si immagina una sartoria dove si preparano le bandiere delle nazioni, nel terzo il braciere di una grande fiaccola olimpica. Tutto accurato e ben fatto, ma dopo gli accenti iniziali, forse un tentativo di teatro di regia, l’azione diventa sterile in un susseguirsi di arie e recitativi non supportati da una reale drammaturgia. Al di là della bravura dei cantanti e dello splendore della musica, l’evento scenico scivola inesorabilmente nella ripetizione.

D’altra parte occorre una riflessione doverosa sul fatto che spesso queste operazioni filologiche si limitano allo studio musicale, dimenticando la “filologia” della messa in scena. Infatti suoniamo con i crismi dell’epoca un’opera barocca, inserendola però in un contesto teatrale postwagneriano, con la sala buia e il pubblico silenzioso e composto. Ai tempi invece la sala era illuminata, si trattava di un evento di intrattenimento mondano; il pubblico si sentiva libero di andare e venire (di solito tutti arrivavano a opera già iniziata) e di ascoltare solo le arie che suscitavano interesse, oppure il cantante fenomeno del momento.

Grande riprova che lo spettacolo barocco funzionava per questi motivi è stata l’aria di Aminta del secondo atto “Siam navi all’onde algenti”, che in bocca al superlativo sopranista Bruno de Sá è diventata un pezzo di bravura, con un da capo farcito di abbellimenti, gorgheggi e acuti che hanno mandato in visibilio il pubblico. Ecco rivelato a suon di applausi il senso dell’opera barocca nella prassi del settecento: intrattenimento musicale per una serata mondana. Il compito di una riproposta contemporanea è quella non solo di riproporre la musica, ma di trovare una strada perché anche l’evento scenico funzioni.

Oggi potremmo avere due strade: o un teatro di regia sotteso ad una drammaturgia che riesca a coinvolgere uno spettatore seriosamente inchiodato nel buio della sala “wagneriana” per lunghi atti che sono un’infilata di arie, il che molto spesso significa anche stravolgere e rendere moderno, provocatorio il tutto. Oppure accettare la prassi e magari fare anche filologia della messa in scena: un po’ di luce in sala, i cantanti che “escono” dal personaggio per fare sfoggio di bravura nelle loro arie, i daccapo che anziché essere identici sono uno sfoggio di virtuosismi spesso non opera del compositore, l’inserimento di arie da baule, magari qualche cosa di contemporaneo. Potrebbe essere interessante e innovativo.

In entrambi i casi il purismo musicale ne viene intaccato, ma d’altronde è anche purismo l’essere consapevoli che questa non era musica composta con l’idea dell’artista demiurgo, che ci pervade dalla rivoluzione romantica e wagneriana, ma onesto mestiere compositivo. Basti ricordare che nel teatro barocco i compositori erano largamente meno retribuiti sia dei cantanti che dei librettisti.

Tornando alla messa in scena, Stefano Vizioli ce la mette tutta e ha anche qualche buona intuizione nel cercare di dare ironia o nel condire di precisione scenica i recitativi. Alla lunga però prevale una certa genericità, in cui le soluzioni sono solo estetiche con i cantanti che entrano ed escono per eseguire i propri pezzi. Nel complesso rimane una messa in scena gradevole, ben organizzata e condotta con attenzione anche grazie alla sobria scenografia di Emanuele Sinisi e ai costumi di Anna Maria Heinreich, appropriati, ma non sempre azzeccati.

Ovviamente immacolata, precisa, attenta la concertazione di Alessandro de Marchi, la cui perizia ha fatto scuola nel repertorio barocco. Il direttore ci regala un suono pieno, agogico e un ottimo rapporto fra buca e cantanti.

Vocalmente il mattatore della serata è stato Bruno de Sá proprio in virtù della capacità di essere “divo” e di aver saputo regalare un grande sfoggio di abilità canora. Sopraffine le sue doti da sopranista, ma ciò che è stato superlativo è la performance nel suo complesso. Il cantante disegna un personaggio sopra le righe, fuori contesto drammaturgico se vogliamo, infatti poco aveva a che fare con il “vecchio educatore”, ma vincente proprio perché il pubblico, che ha sempre ragione, ha colto istintivamente non l’incongruenza scenica, ma la capacità di fare spettacolo, intrattenimento vocale, illuminando improvvisamente e a suon di applausi il vero scopo, la vera missione del teatro musicale barocco.

Ottimo tutto il resto del cast, ma più “in parte”, più ligio ai dettami scenici, che però, in questo tipo di teatro non interessano a nessuno e di conseguenza hanno fatto meno “impressione”, come si diceva una volta.

Raffaele Pe si conferma un ottimo artista dotato di una bella voce di controtenore e di una buona verve interpretativa. Al suo fianco Bejun Metha completa la coppia controtenorile con una voce salda e duttile, pur essendo meno spigliato scenicamente. Christian Senn interpreta con voce pastosa e omogenea il personaggio del Re, affiancato dall’ottimo basso Luigi De Donato come suo consigliere. Meno convincenti ma corrette e coinvolte Margherita Maria Sala (Contralto) e Benedetta Mazzuccato (Mezzosoprano).

Teatro pieno e convinto successo per tutti gli interpreti nel finale. Grande tripudio di applausi per il maestro Alessandro De Marchi che con questo festival lascia dopo 14 anni la direzione delle Innsbrucker Festwochen.

Raffaello Malesci (Martedì 8 Agosto 2023)