Recensioni - Opera

L'Otello di Kunde trionfa a Reggio Emilia

Ultima tappa del capolavoro verdiano nella riuscita produzione del Circuito Emiliano

Fuori, il mare tempestoso è un unico scorcio, con il cielo fosco in cui dense nubi non lasciano trapelare alcun raggio di luce. Dentro, le pareti del palazzo, un palazzo le cui rare suppellettili rivelano un’anima altoborghese, portano solo nel loro riflesso ramato le tracce di un antico splendore, una bellezza che il tempo, l’umidità, l’alito del vento e della salsedine hanno incrostato e ossidato.

Con scarna essenzialità, la regia di Italo Nunziata, per l’Otello che la scorsa settimana ha fatto tappa a Reggio Emilia, dopo il vivo successo riscosso al Municipale di Piacenza e al Comunale di Modena, entra nelle pieghe del libretto che Boito distilla da Shakespeare, senza concessione a facili descrittivismi ciprioti, trasponendo i fatti in un tempo sospeso. Con la complicità di Domenico Franchi e delle sue scene quasi vuote – pochissimi arredi che è lo sfondo a connotare: ruggine e cobalto nelle scene collettive, quando la città esulta al suo generale, verde muschio, umido, scivoloso, quando la macchina drammaturgica si fa stringente e il veleno del dubbio si fa largo nella mente del Moro - affida tutto alle luci di Fiammetta Baldiserri, al dardo del loro baluginare. In buca, la bacchetta giovane e valorosa di Leonardo Sini, alla testa dell’Orchestra dell’Emilia Romagna Arturo Toscanini, risponde con pari efficacia, esaltando, della partitura, il sontuoso damasco di preziosismi che il vecchio Verdi fila con straordinaria perizia, accompagnando l’inesorabile discesa agli inferi del protagonista nel gorgo di una scrittura spiraliforme, attraverso quei cromatismi che, ancor prima di farsi insensato pensiero, sono suggerimento, allusione, remoto accenno dei violoncelli, sornioni e bugiardi.

Nel ruolo del titolo giganteggia la classe senza tempo di Gregory Kunde, acuti ancora eroici sebbene sforzati e suoni gravi non più perfettamente timbrati, ma un fraseggio d’alta scuola e l’intima confidenza con un personaggio di cui sembra possedere ogni segreto. Accanto a lui, la prova in crescendo di una sempre più convincente Francesca Dotto, Desdemona di piena naturalezza, nella leale passione che la lega all’amato così come nell’accorata, dignitosa professione di innocenza che, nel IV atto, la porta a filare con perfetta adesione emotiva i chiaroscuri della Canzone del salice, la sua ultima preghiera prima di incontrare la morte. Impeccabile nella statura vocale così come nella magnetica doppiezza con cui si muove attraverso la tela che lui stesso ordisce – brutale con la moglie Emilia, la brava Sayumi Kaneko, quanto adulatore sfuggente e spietato con gli ingenui Cassio e Roderigo (rispettivamente Antonio Mandrillo e Andrea Galli) - è lo Jago di Luca Micheletti, interprete totale nello smalto di una vocalità insieme scultorea e vellutata, capace di abbracciare le divergenti polarità di un personaggio sempre difficile da afferrare. In uno scavo capillare, la parola scenica si fa lezione di autenticità. Completano il cast il puntuale Lodovico di Mattia Denti, e il Montano di Alberto Petricca. Applausi da parte di un teatro sold out anche al coro delle voci bianche del Conservatorio di Piacenza, preparato da Giorgio Ubaldi e al coro del Municipale, istruito da Corrado Casati.