Recensioni - Opera

La Dama di Picche in Scala: una scommessa vinta

Trionfo siglato da un grande cast e dalla piacevole rivelazione del direttore ventisettenne Timur Zangiev.

Assente da ben trentadue anni - con nientemeno che Mirella Freni nel ruolo di Liza - La Dama di Picche torna finalmente in Scala. Capolavoro del teatro russo, “Pikovaja Dama” è una storia di ossessione e di morte, uno scavo profondo nelle debolezze umane attraverso la sublime partitura di Pëtr Il’ič Čaikovskij, cha dà nuovo respiro all’omonimo racconto di Puškin e si avvale del libretto ampiamente rielaborato a firma del fratello Modest Čaikovskij.

Questa nuova produzione è affidata a Matthias Hartmann, già sulle scene scaligere nel 2017 con “Der Freischüz” di Weber e nel 2019 con “Idomeneo”, riproponendo in gran parte qui la stessa squadra che l’ha affiancato in quelle due occasioni.

Dell’impronta registica tuttavia poco possiamo dire, in quanto piuttosto anonima se non inesistente. I solisti vengono il più delle volte abbandonati a se stessi in proscenio e lo spettacolo si regge unicamente sul loro potenziale espressivo ed attoriale. Fortunatamente il cast dimostra l’esperienza necessaria per reggere da solo un onere così gravoso, anche se uno sforzo di scavo psicologico in più sarebbe stato apprezzabile.

Molto ben curato invece è l’aspetto visivo della messinscena, estremamente minimal ma assai affascinante nella sua essenzialità monocromatica. Sul palco l’ingombro prevalente è dato da un immenso vuoto, lo stesso che alberga nell’anima dei protagonisti. L’impianto scenico di Volker Hintermeier va a definire gli spazi attraverso alti parallelepipedi a base triangolare, in cui ciascuna delle tre facce presenta un aspetto alternativo. Ruotando, traslando e all’occasione ribaltandosi a simulare la gelida riva del fiume, essi vanno efficacemente ad ambientare l’opera di quadro in quadro: pareti imbottite che impreziosiscono la stanza della Contessa; specchi che ampliano a dismisura e rendono più sfarzosa la sala da ballo nell’atto secondo; neon abbaglianti - dal valore più simbolico - proposti quasi come un presagio in apertura e in altri punti cruciali della vicenda come la visione del fantasma che rivela finalmente l’agognato segreto delle tre carte, quasi a tradurre visivamente lo smarrimento di Hermann ormai accecato dalla smania del gioco.

Pochi altri elementi popolano la scena: un grande letto matrimoniale, lussuosi lampadari (peraltro citando la stessa foggia di quelli nel foyer scaligero Arturo Toscanini), la bisca ricreata con un tavolo da gioco circolare a spicchi alternati quasi a rievocare una roulette, come emblema dell’azzardo (e con probabile ulteriore rimando alla roulette russa, considerato il finale sanguinoso).

Dominano ovunque il bianco e il nero in contrapposizione netta, un’estetica che si riflette anche negli eleganti costumi di Malte Lübben, alternando velluti corvini a candide sete e pizzi.

A movimentare con atmosfere suggestive un contesto volutamente scarno troviamo le luci di Mathias Märker, che con il sapiente uso di bagliori, coltri di fumo e ombre proiettate su tulle semitrasparenti, dà corpo visivo a quel pàthos che la partitura richiede.

Eccentriche le coreografie di Paul Blackman, che con il loro stampo faunesco e goliardico si inseriscono in modo (forse troppo) colorito nelle scene in costume settecentesco.

Infine l’apporto del drammaturgo Michael Küster ha il merito (o la colpa?) di innescare l’unico accenno di regia percepibile: la presenza del Conte di Saint-Germain, nobile licenzioso ed estroso alchimista francese presente nel racconto di Puškin, ma non nel libretto.
Come apprendiamo dal soggetto originale, fu lui in passato a rivelare il segreto delle tre carte alla Contessa, innescando la tragedia. Così lo vediamo aggirarsi sul palco - presenza muta ma ingombrante, a tratti petulante - in qualità di deus ex machina della vicenda. Inizia con l’ospitare la grande festa nel secondo atto con una serie di frivoli teatrini e ricompare con più consistenza in altri punti salienti come ad esempio il finale, dove scambia fisicamente l’asso di Hermann con la donna di picche, decretandone la sconfitta e portandolo definitivamente al suicidio.

Se al netto del riuscito impianto visivo la regia non entusiasma, il comparto musicale ci regala enormi soddisfazioni. Nonostante La Dama di Picche sia un titolo proposto raramente per le sue difficoltà esecutive che richiedono enorme sforzo drammatico e di concertazione, in questa edizione troviamo un bilancio nettamente positivo e coinvolgente, a partire dalla bacchetta di Timur Zangiev. Pupillo di Valery Gergiev e suo sostituto dalla seconda replica in poi per le vicende ormai note, il giovane direttore (classe 1994) guida con gesto elegante e sicuro l’Orchestra del Teatro Alla Scala, dimostrando grande carisma oltre ad una profonda conoscenza della partitura. Ne sa enfatizzare con cura ogni frastagliato aspetto, dalle vampate nevrotiche che la innervano alla leggerezza degli omaggi mozartiani, dal turgore tragico alle tinte notturne e spettrali.

Najmiddin Mavlyanov ha tutto quel che occorre per risolvere l’impervio ruolo di Hermann, non per niente conosciuto anche come “l’Otello Russo”: estensione ampia, declamato calibrato, registro centrale solido, voce tenorile vigorosa e di gran volume capace altresì di abbandonarsi alle sfumature liriche più dolci.

Liza è il soprano ucraino Elena Guseva, che tratteggia il suo personaggio con linea vocale ampia e vellutata, impreziosita da un bel colore ambrato che enfatizza i tratti femminili e dolci della fragile ragazza. Struggenti in particolare scena ed arioso che chiudono il sesto quadro (“Akh, mily, prikhodi”).

Julia Gertseva spicca sull’intero cast per carisma scenico, magnetica nell’interpretare a tutto tondo una Contessa algida, temibile nella sua austerità ammantata di mistero. Un’espressività che si riflette anche nel canto, con una vocalità duttile che spazia da mezzevoci delicate nella nostalgica canzone francese “Je crains de lui parler la nuit” al distaccato e pregnante fraseggio che scandisce il Monologo delle Tre Carte.

Roman Burdenko è un Tomskij tonante, interpretato con la giusta autorevolezza mista a malizia che contribuiscono a dare del Conte una resa convincente.

Composto vocalmente e scenicamente autorevole il Principe Eleckij di Alexey Markov, che nella sua aria “Ya vas lyublyu” esprime con accorato trasporto tutto il suo affetto per Liza, strappando calorosi applausi a scena aperta.

Ottima la prova di Olga Syniakova che, oltre alla piccola parte di Milovzor, ricopre efficacemente il ruolo di Polina, sostituendo all’ultimo l’indisposta Elena Maximova.

Anche l’apporto dei numerosi altri comprimari è nel suo complesso di grande qualità.

Eccellente infine il Coro preparato da Alberto Malazzi, con una menzione d’onore per il finale ultimo “Godspod! Prosti yemu”, che con un estatico requiem a cappella sigilla la tragedia in un ultimo breve attimo sospeso, di grande suggestione.

Al termine 13 minuti di scroscianti applausi hanno salutato il folto cast, con ovazioni per il Maestro Zangiev e Gertseva, Guseva, Markov, Maylyanov.

Camilla Simoncini