Recensioni - Opera

La Fanciulla del West a Pavia: un lieto fine apparente

OperaLombardia propone coraggiosamente un Puccini meno inflazionato,memorabile nell’esecuzione musicale e nel raffinato allestimento firmato da Andrea Cigni.

Debuttata a Brescia lo scorso settembre, questa felice produzione de “La Fanciulla del West” approda sulla scena pavese del Teatro Fraschini, seconda tappa prevista nella tournée di OperaLombardia.

Con un titolo nel quale “protagonista è l’orchestra” (ci insegna Gavazzeni), assistiamo a uno spettacolo di alto profilo in primis grazie alla lettura musicale vincente di Pietro Rizzo (nonostante l’inaspettato subentro ad un indisposto Valerio Galli, detentore del podio nelle scorse rappresentazioni). Il Maestro interpreta con varietà d’intenzione e colore ogni elemento innovativo della partitura, in cui vediamo sacrificarsi il gusto melodico romantico in favore di una teatralità sinfonica che spalanca le porte al Novecento, partendo da reminiscenze wagneriane per arrivare a sonorità vicine a Strauss e Debussy. Buona la risposta dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali nello schieramento a ranghi ridotti curato da Ettore Panizza, scelta dovuta alle attuali norme di distanziamento ma già impiegata e validata ai tempi dallo stesso compositore lucchese per le rappresentazioni in teatri di dimensioni contenute.

Anche i solisti sul palco si disimpegnano in modo eccellente, ciascuno facendo i conti con tessiture tutt’altro che comode. Rebeka Lokar risolve il ruolo del titolo con grande disinvoltura, padronanza tecnica e cura del fraseggio. Il soprano sloveno offre una Minnie dai centri corposi, declamati espressivi e nondimeno acuti scintillanti, svettando senza problemi dal Do nell’arioso “Laggiù nel Soledad” al Si Bemolle che chiude il secondo atto. Dick Johnson/Ramerrez è un Angelo Villari in splendida forma, oggi tra le prime scelte in questo repertorio. Con voce schietta di lirico spinto, il tenore messinese affianca ottimamente la protagonista impersonando il bandito redento con impeto, squillo possente e calore di timbro. Buona anche l’intenzione interpretativa nella sola vera e propria aria dell’opera (“Ch’ella mi creda libero e lontano”), unico momento accolto infatti da applausi a scena aperta. Jack Rance è Claudio Sgura (in sostituzione di Devid Cecconi, anch’egli indisposto), imponente nella presenza scenica come nel canto. Il baritono ostunese tratteggia uno sceriffo efficace, credibilmente grezzo nei modi e tenebroso al punto giusto, con timbro scuro e vocalità robusta.

Nel fitto comprimariato meritano una menzione d’onore il Nick di Didier Pieri, l’Ashby di Andrea Concetti e il Sonora di Valdis Jansons, tutti ben cantati e caratterizzati con efficacia. Buono anche l’apporto del Coro preparato da Diego Maccagnola e di tutti le altre numerose parti di fianco.

A corredo di una prova musicale più che soddisfacente, altrettanto di pregio è la raffinata regia di Andrea Cigni, coadiuvata dalle scene austere di Dario Gessati (ben illuminate da Fiammetta Baldisserri) e dai costumi contemporanei curati nel dettaglio da Tommaso Lagattolla.

Dimentichiamo l’atmosfera da film western fatta di cowboys e pistoleri spesso associata a quest’opera, con rivoltelle e cartonati da luna-park raffiguranti monti, radure e lande della California ottocentesca. La scena è recintata da imponenti strutture industriali metalliche su cui si innestano fari da lavoro che illuminano un’enorme pedana centrale inclinata, a richiamare sinteticamente i pendii scoscesi della Sierra. Da questa si aprono una serie di botole che fanno riemergere i minatori dal sottosuolo, andando di volta in volta a costruire sul palco contesti e situazioni del mondo là fuori (il Saloon “La Polka”, la capanna di Minnie, il patibolo di Johnson). Vediamo uno spazio (dis)umano di volta in volta creato e reinventato da chi lo vive: ora un luogo di calore e accoglienza, ora un luogo di morte.

Nell’asciuttezza duttile di tale spazio, assume un ruolo centrale il lavoro registico di fino sugli artisti in scena.
Il ritratto più netto è quello di Minnie: tra le tante sfumature della protagonista - dalla dolce sognatrice, alla giovane ardita, all’amorevole quanto saggia figura di amica/maestra/madre/sorella - si evidenzia e svetta su tutte la donna forte, solida, di carattere. La Fanciulla del West è pilastro e riferimento di decine di uomini perduti, è impavida e cinica nello sfidare al gioco il brutale Rance per liberare l’amato Johnson/Ramerrez, è risoluta nell’intento di salvargli la vita e garantirsi un futuro con lui.
Notevole è anche la cura impiegata nel trattamento del folto insieme di solisti, coro, persino tecnici di palcoscenico che si trasformano in comparse. Cigni ci presenta un’enorme “famiglia” di minatori che non è folla e nemmeno un’accozzaglia di caratteristi singoli, ma si fa personaggio unico in nome di una condizione condivisa. Una microsocietà trattata – ragionevolmente - come vera e propria protagonista dell’opera e immortalata nella crudezza della sua esistenza: uomini uniti nella solitudine, lontani dai propri cari e condannati a una routine di sudore, costrizione, alienazione.

Sottile è anche la chiave di lettura del finale, che non è la non-soluzione di uno statico duetto in proscenio della coppia, come potrebbe apparentemente sembrare: un tulle nero opaco cala e separa per sempre i minatori da Minnie, condannando loro all’oblio e proiettando lei in un divenire luminoso con Johnson. Al lieto fine della storia d’amore non corrisponde dunque un finale altrettanto lieto nel destino di quegli uomini, abbandonati amaramente nel finale alla loro oscurità, senza possibilità di redenzione.

Al termine applausi convinti e accoglienza calorosa nonostante una sala per nulla gremita, probabilmente a causa di un titolo straordinario ma non abbastanza noto e rappresentato.

Consigliamo di non perdere i prossimi appuntamenti in scena a Como (14-16 Gennaio) e Cremona (21-23 Gennaio).

Camilla Simoncini