Recensioni - Opera

La Venezia di ieri e di oggi nel Campiello di Wolf Ferrari

Incantevole messa in scena al Filarmonico di Verona della rara opera del compositore

Ultimo appuntamento prima della ripresa areniana per l’opera al Teatro Filarmonico di Verona, con una ben riuscita messa in scena del raro Campiello di Ermanno Wolf Ferrari su libretto di Mario Ghisalberti, dall’omonima commedia di Carlo Goldoni.

L’opera, che ebbe la sua prima rappresentazione al Teatro alla Scala di Milano l’11 Febbraio del 1936, si caratterizza per una sostanziale fedeltà alla commedia goldoniana e per una musica lieve, articolata in un recitar cantando privo di pezzi chiusi. La teatralità è spiccata e viene elevata e completata da numerosi pezzi sinfonici dedicati a pantomime o balletti, inseriti in un’azione sempre briosa e movimentata. Un’opera buffa del novecento insomma, che pare semplice, ma nella cui partitura si percepiscono in sottotraccia non pochi rimandi al modernismo d’oltralpe. Non per niente Wolf Ferrari, veneziano di nascita, con padre tedesco e madre italiana, svolse buona parte della sua carriera in Germania.

Nel Campiello di Goldoni il vero protagonista è il luogo, una piazza veneziana, un “campo” per l’appunto. Commedia corale per eccellenza, vi si racconta le trame amorose di una piccola comunità affacciata sul campiello: gli innamoramenti, le gelosie, le baruffe, i rimbrotti che sfociano nell’inevitabile lieto fine. Bandite le maschere della commedia dell’arte, siamo dopo il 1750, data della famosa riforma goldoniana, i protagonisti sono parte di quella piccola borghesia veneziana in ascesa, destinata a scalzare i nobili e i “lustrissimi” sia dalla vita cittadina che dalla presenza nelle commedie. Non per niente Goldoni è il primo e vero inventore della commedia borghese, caposaldo del teatro ottocentesco; colui che sancirà la nascita di un nuovo genere e il definitivo tramonto della tradizione dell’arte italiana, che dal cinquecento a fine settecento fu il pilastro e la pietra di paragone del teatro europeo. Non a caso Goldoni muore a Parigi nel 1793, agli albori della rivoluzione francese; dopo di lui il teatro italiano passa la mano al teatro borghese francese e tedesco. All’Italia nell’ottocento rimarrà l’opera come unica forma di spettacolo capace di incidere nell’immaginario culturale europeo.

Federico Bertolani, regista di questa messa in scena, coglie perfettamente lo spirito del Campiello. La protagonista è infatti la piazza nella sua coralità e di conseguenza Venezia come luogo mitico e simbolico. Brillante e azzeccata la scelta di inquadrare l’azione in una classica riproduzione del Campiello, su cui però, in concomitanza con gli intermezzi sinfonici, si aprono squarci della storia veneziana. Perciò durante l’azione, sempre gestita con ritmo e brio, vediamo aprirsi sullo sfondo la storia di Venezia dal settecento ai giorni nostri. Si inizia con la classica gondola e le maschere; poi la fine della Repubblica con il doge che ammaina per l’ultima volta la bandiera con il Leone di San Marco; si passa dunque all’ottocento e alla dominazione austriaca, con un vaporetto e una coppia che cita opportunamente nelle fogge dei costumi il celeberrimo “Senso” di Luchino Visconti; poi è la volta dell’Italia unitaria, del fascismo, della guerra e della liberazione, sempre in quadri mimici veloci ed efficaci; si approda infine alla contemporaneità per cui si intravede sullo sfondo il Mose con le sue paratie che dovrebbero salvare la città dall’acqua alta. Nostalgico il quadro finale, in cui “L’addio a Venezia”, intonato da Gasparina e dal coro, si svolge in una città invasa e soffocata dal turismo di massa, con sullo sfondo l’incombere minaccioso di una immensa nave da crociera.

Classicità e modernità dunque, commedia e riflessione storica, per una messa in scena azzeccata nel concetto e nella realizzazione. Anche la dimensione scenica è ben gestita, puntando tutto sulla rapidità dell’azione e la comicità degli interpreti, ben preparati e a loro agio sul palco. Completano un allestimento da ricordare le scene di Giulio Magnetto e i filologici costumi di Manuel Pedretti.

Ottimo il cast vocale: tutti in parte, ben caratterizzati e affiatati. A cominciare dalle divertentissime comari en travestì di Leonardo Cortellazzi (Dona Cate) e Saverio Fiore (Dona Pasqua), che regalano momenti esilaranti grazie a voci tenorili calde e timbrate, unite a gustose caratterizzazioni. Biagio Pizzuti si distingue come elegante Cavaliere Astolfi, sfoggiando una vellutata e sonora voce baritonale. Gabriele Sagona è un Anzoleto irruento e sfacciato, efficacemente contrastato da Matteo Roma, sicuro interprete di Zorzeto.

Paola Gardina è una Orsola divertente anche se un po’ aspra negli acuti. Lara Lagni sfoggia filati eleganti e belle mezze voci nella romantica parte di Gnese. Sara Cortolezzis (Lucieta) si distingue per verve, mimica e una sicura impostazione vocale. Bianca Tognocchi (Gasparina) canta con sicurezza e si impone con una vocalità piacevole e controllata. Il personaggio avrebbe potuto essere più comico e rifinito, in particolare nei giochi verbali basati sui difetti di pronuncia. Guido Loconsolo è un tonitruante e convincente Fabrizio.

Francesco Ommassini dirige con eleganza e allegria, mantenendo saldamente in pugno il rapporto fra buca e orchestra, senza mai coprire o mettere in difficoltà le voci.

Teatro non pienissimo ma con molti applausi nel finale.

Raffaello Malesci (Domenica 24 Marzo 2024)