Recensioni - Opera

La danza dei Balletboyz a Cremona. E ritorna il dilemma tra abbandono e controllo.

La compagnia inglese in una coinvolgente esibizione al Teatro Ponchielli

Lo spettacolo di danza contemporanea della compagnia BALLETBOYZ, visto  martedì 10 aprile al Teatro Ponchielli di Cremona, si presta ad una riflessione che presenteremo a conclusione di questo articolo. Lo spettacolo  si intitola  FOURTEEN DAYS ed è l’ultima produzione della compagnia londinese che opera sotto la direzione artistica del talentuoso duo composto dagli ex ballerini del Royal Ballet :  Michael Nunn e William Trevitt. Come recita il carnet del teatro, caratteristica peculiare della compagnia è di essere “… composta da  dieci  strepitosi  giovani talenti … una delle forze più sfacciatamente originali ed  innovative nel panorama della modern dance, pionieri dell’idea di una danza per tutti, (che, ndr) hanno raggiunto un vasto pubblico grazie ai loro applauditi lavori in teatro e in televisione”.

 

La compagnia vede la sua nascita nel 2000 e nei suoi primi 10 anni presenta spettacoli in tutto il mondo con una formazione tradizionale, ma nel 2010 avviene la svolta artistica che caratterizzerà la sua attuale composizione, con la promozione della prima edizione del progetto the TALENT, una selezione attraverso cui vengono prescelti, prima otto e poi 10, giovani ballerini maschi provenienti da tutto il mondo. Con questa formazione BalletBoyz vince nel 2013 il National Dance Award, e, visto il grande interesse dei suoi direttori artistici per il cinema, nel 2015  il Golden Prague e nel 2017 il premio Rose d'Or, entrambi per film di danza. La componente cosmopolitita del gruppo è riscontrabile nel programma dello spettacolo di Cremona, dove sono presentati cinque balletti di vari coreografi, di cui tre provenienti dal Royal Ballet, di diversa nazionalità. Il risultato, come sottolinea Luke Jennings, critico inglese, “ rende la visione interessante e rivelatrice. Il formato tutto maschile è indiscutibilmente dinamico, e certamente dissipa qualsiasi nozione di balletto come una forma ineluttabilmente femminile...”, così come ruota intorno a comportamenti maschili quali: la provocazione, la sfida, la competizione, la prestanza individuale e la dinamica di gruppo, con sprazzi permeati da un discreto omoerotismo. Giocando nei passi a due e nella coreutica di gruppo, più che nella performance individuale, Michael Nunn e William (Billy) Trevitt, residenti entrambi nella West London, ci offrono una visione del mondo all’inglese, come nella cinematografia nazionale, dove emerge un certo distacco dall’approfondimento psicologico, uno stile discreto, morbido e pacato e un profondo rispetto dell’altro, anche nel conflitto, in uno stile globalmente sinuoso, collaborativo e complice. I primi 4 balletti sono nuovi, ognuno è stato creato in due settimane e tutti sono incentrati sui temi dell'equilibrio e dello squilibrio. Temi subito svelati in “The Title Is In The Text” dove un grande palo - altalena divide orizzontalmente il palco. Su di esso nove danzatori esplorano ogni possibile variazione, con inclinazioni, oscillazioni, scivolamenti, salti, sempre in situazioni di precario equilibrio, con i protagonisti tenuti in sicurezza da partners che bilanciano la tavola dalla parte opposta. A dare il ritmo ai giochi di saliscendi è la colonna sonora di Scott Walker, che, come scrive  Judith Mackrell su The Guardian predispone “… un paesaggio sonoro inquietante e tumultuoso con frammenti di testo che rimandano a immagini di discordia politica ed economica … (che vede, ndr) l’altalena come una metafora dei nostri tentativi di mantenere il controllo in un mondo spaventosamente instabile. ” In “Human Animal”, il coreografo Iván Pérez lavora con un linguaggio minimale, giocato sulla corsa e sui movimenti ritmici e cadenzati delle gambe.

Un continuo viaggio in circolo, che ricorda le migrazioni degli animali ed il dressage equestre, dove la voluta limitazione corporea, che rischia di irrigidire e penalizzare il tutto, diventa alla fine un elemento ripetitivo rituale. Un mondo dove non esistono emozioni, ma  espressioni neutre, in uno studio formale sull'equilibrio, visto come erratico flusso di esitazioni e inversioni, di movimenti funzionali e asimbolici, accompagnati dalla colonna sonora ritmata di Joby Talbot. “Us” di Christopher Wheeldon è un duetto che si basa sulla relazione tra i corpi, basati su movimenti sinuosi e legati, impostati su rapporti di fiducia, supporto, rischio e distacco, in un gioco di equilibri – squilibri, che ravvisa una delicata storia d'amore. L'uso romantico degli archi, nella partitura di Keaton Henson, sottolinea l’intenzione creativa del coreografo, in un duetto che è il più emotivamente ricco della serata. La mascolinità della compagnia emerge in “ The Indicator Line”, una coreografia di Craig Revel Horwood, nella quale, spinti dal potere percussivo della colonna sonora di Charlotte Harding, otto uomini, vestiti da operaio con tute da lavoro e zoccoli, danzano in gruppo e a coppie, sottolineando, a volte col battito dei piedi a ritmo di flamenco, simboliche sfide di potere tra  capo e dipendenti, tra animati sindacalismi e corali sottomissioni, in una discreta contesa sui diritti, per avere spazi, tempi e movimenti: liberi … bloccati come sono da un signore tirannico. Il meglio della serata arriva per ultimo, con la ripresa di “Fallen” una coreografia di Russell Maliphant vincitrice del British National Dance Award nel 2013. Un lavoro discontinuo, che propone, successivamente alla rarefatta sezione di apertura, eleganti intrecci, permeati dalla delicata sinuosità dei movimenti, che non solo sembrano liberare i corpi dalla gravità, ma sospendere il passare del tempo, in un continuo gioco di  prese e scivolamenti, rotolamenti, cadute e sollevamenti. Un lavoro senza scenografia, coi muri e gli attrezzi del teatro come sfondo, dominato dal ciclico osservare dei dieci ballerini il lavoro delle coppie o dei singoli, in una situazione di contemporanea riflessione della vita, fatta di alti e bassi e di movimenti lenti, accompagnati e flessuosi … in netto contrasto con le musiche cadenzate, martellanti a volte neolatine, alla René Aubry, di Armand Amar.  Uno spettacolo senza sbavature, tutto perfetto … preciso… fin troppo.

 

Uno stile, questo dei Balletboyz, che si presta ad alcune osservazioni, come quella, giustamente ironica, di Luke Jennings, quando lo definisce “collaborazione canaglia … limitante” dove “ … Non esiste un limite teorico ai temi che un gruppo di danza maschile può esplorare, ma in pratica si riduce a una mancia prevedibile…” nella quale “… L'umorismo tende a scarseggiare, come immagino fosse nei campi di allenamento di Sparta.” Una critica arguta ed adeguata, che tende a evidenziare un grosso problema che riscontriamo in tante compagnie di danza moderna : il Fare Arte ! Perché troppe volte assistiamo a lavori ineccepibili, con grandi competenze fisiche e professionali di danzatori e coreografi, dove emerge la bravura degli interpreti e la grande preparazione e disciplina nell’allestire e nel ripetere movimenti e gesti, in una trama complessa e variegata, dove la memoria e l’esercizio diventano componenti essenziali di un allenamento matematico, attento a ripetere correttamente il passo e il gesto, il passaggio col partner, ripetuto molte volte e rodato, secondo un copione sempre più preciso, dove tutto scorre fluido come un fiume millenario. L’apoteosi del “Controllo” ! Nella dicotomia secolare con l’”Abbandono”, evidenziata già da Diderot e suffragata dalle ricerche del Teatro Antropologico di fine ‘900. Certo, il “controllo” diventa una pratica  solida e sicura, confortante e soddisfacente, che garantisce alla performance precisione tecnica e coordinazione tra i performers, ma che dimentica i valori umani che proprio l’Arte Moderna ha evidenziato : spontaneità ed istinto, emozione e passione, e che scorda che la Mission del difficile linguaggio della danza contemporanea, spesso univoco e soggettivo, è connotata più dall’abbandono che dal controllo, dato che non soggiace più agli stilemi ritualistici, ripetitivi, schematici e formali della danza classica, da cui si discosta nelle dinamiche informali e astratte, nei linguaggi liberi, spontanei, metamorfici ed energici come ha da essere la Vita nell’Arte.

Ma questo non è e nel moderno si insinua l’”accademia”, con  intere compagnie dallo stile sempre uguale, dove i movimenti sono lenti e misurati, la tensione minima, le mani morte, i visi inespressivi, il corpo chiuso in sé stesso; dove la preparazione tecnica diventa più importante dell’atto creativo e nessuno studio viene dato alla preespressività.  E il risultato, necessariamente, ne risente … tutto in sicurezza, lento, “prevedibile”, privo com’è, nonostante la bravura tecnica di danzatori e coreografi, di spontaneità, di anima e di Vita.

Cristina Fontana 10/04/2018