Recensioni - Opera

La poesia dell’essenzialità

Al Teatro Grande i sonetti di Shakespeare in una straordinaria messinscena curata da Peter Brook.

Pensare ai sonetti di William Shakespeare come la base di una possibile drammaturgia è cosa che di primo acchito può suonare piuttosto strana. Molto spesso infatti spettacoli-lettura di questo genere si risolvono con uno o più attori, altrettanti leggii, qualche cambio luce e qualche stacco musicale a condire una giustapposizione più o meno motivata di brani. Al contrario “Love in my sin”, l’ultimo spettacolo realizzato dal geniale regista Peter Brook, basato su una selezione dei sonetti del bardo di Stratford, è riuscito a coniugare parola e teatralità in modo straordinario.

Lo spazio scenico era caratterizzato dall’immancabile tappeto, ormai vera e propria firma del regista, da una manciata di sgabelli, sui quali prendevano di volta in volta posizione gli eccellenti attori Natasha Perry e Michael Pennington, e, in un angolo, da un sintetizzatore a disposizione del musicista Franck Krawczyk. Il resto era riempito dalle parole di Sakespeare, mirabilmente dette ed altrettanto mirabilmente contestualizzate.
I sonetti scelti per l’occasione erano stati suddivisi in quattro sezioni, che seguivano un percorso del sentimento amoroso in una vera e propria drammaturgia, che rappresentava l’evoluzione di un rapporto: Il tempo famelico, La separazione, La gelosia e Il tempo sconfitto. Il tutto procedeva senza soluzione di continuità, accompagnato da qualche breve stacco musicale che non fungeva mai da cesura, bensì da raccordo tra un episodio e l’altro, completando quelle emozioni che venivano raccontate dalla parola. Le musiche di Louis Couperin, a volte eseguite con timbro di pianoforte, altre di clavicembalo, si alternavano a semplici rumori, quale ad esempio il respiro del mantice della fisarmonica che, come sottofondo ad un sonetto che si riferiva al mare, ne rievocava lo sciabordio.
Superfluo rimarcare la perfezione con cui i due interpreti porgevano il testo: ogni singola parola veniva cesellata ed esaltata in modo tale che nulla scivolasse via senza la dovuta importanza. A questo proposito penso ai tre “I hate” del sonetto 145, le cui tre differenti modalità di espressione sono bastate a rendere tutto il senso del componimento.
Per quanto concerne l’aspetto visivo il tutto era risolto in pochi movimenti, tanto essenziali quanto calibrati, che  raccontavano con sobrietà di sentimenti la storia dei due amanti, illuminati da luci calde e pressoché fisse per tutta la durata dello spettacolo.
In sostanza un allestimento di grande semplicità (ovvero di quella semplicità che solo i grandi possono permettersi), che non è mai scaduto nel freddo accademismo, ma che al contrario ha illuminato di una luce nuova quello che già credevamo di conoscere.
Il pubblico che riempiva il teatro ha dimostrato grande partecipazione tributando applausi tanto calorosi quanto meritati ai tre interpreti.

Davide Cornacchione 5 dicembre 2009