Recensioni - Opera

Leo Gullotta: un Falstaff troppo elegante

Non del tutto convincente l’allestimento delle Allegre comari di Windsor al Teatro Romano

“Le Allegre comari di Windsor è una commedia francamente noiosa. Dobbiamo essere grati a  Shakespeare di averla scritta perché ha fornito lo spunto al Falstaff di Verdi, un eccelso capolavoro operistico.”
Con questo  giudizio W.H. Auden, nelle sue celebri lezioni shakespeariane, apriva e chiudeva il suo intervento su quest’opera e, pur senza essere così lapidari, bisogna riconoscergli un fondo di ragione.
Infatti, se da una parte abbiamo un efficacissimo plot drammaturgico, incentrato sulle tre burle ai danni di Falstaff e sulla gelosia di Ford, nel quale si inserisce magicamente la storia d’amore tra Fenton ed Annina, dall’altra la commedia è appesantita da un nugolo di personaggi minori che Boito e Verdi sapientemente eliminano ma che, al contrario, sono a turno presenti versioni in prosa.
Dico a turno perché, a seconda del taglio che si vuole imprimere allo spettacolo, una volta manca Evans, una volta Shallow, una volta l’oste, e così via,  ma senza che si arrivi mai ad una versione asciutta e sfrondata da quelle parentesi che, se non perfettamente gestite, possono risultare posticce.
 

Purtroppo neanche questo nuovo allestimento, che ha debuttato al Teatro Romano di Verona con la regia di Fabio Grossi, si è salvato dal tranello. La complessità dell’intreccio e, soprattutto, la scarsa modernità ed una certa pesantezza della traduzione, non hanno aiutato a snellire il tutto. Anzi, gli attori troppo spesso sembravano risentire di una certa ridondanza del testo e quindi, secondo una discutibile prassi teatrale, recitavano le battute ad una velocità sostenuta, nel tentativo di imprimere brio e ritmo, ottenendo al contrario il risultato di appiattire la scrittura e di renderla anonima.
Discorso analogo per le caratterizzazioni dei personaggi che, al di là di qualche macchietta (che peraltro si esauriva brevemente in una stanca ripetizione), non offrivano molto di più.
Mattatore della serata avrebbe dovuto essere Leo Gullotta, il quale, pur riconoscendogli indiscusse doti e grande abilità nel tenere la scena, non è Falstaff, almeno non come ce lo si immagina. Dell’ex “paggio del duca di Norfolk” gli mancano la grassezza fisica e la grossezza caratteriale: i suoi movimenti sono troppo agili, la pancia si percepisce che è posticcia, che non gli pesa, che non la trascina a fatica; allo stesso tempo il suo modo di porsi è troppo da “grand seigneur”, troppo raffinato ed elegante per  il gozzovigliatore che gode a corteggiare due dame contemporaneamente.
Falstaff è personaggio di terra, Gullotta ne fa personaggio d’aria, che all’interno di una lettura veramente innovativa avrebbe potuto essere una rivelazione, ma che qui ha dato l’impressione di centrare poco o nulla.
L’idea registica infatti era quella di proporre una commedia leggera e scanzonata, con passaggi scanditi da stacchetti musicali, e personaggi che entravano ed uscivano dalle sottane di una gigantesca Elisabetta I firmata da Luigi Perego, senza ulteriori particolari spunti.
Dal punto di vista recitativo, oltre al Falstaff di Gullotta, l’altra figura che spiccava era la Quickly di Mirella Mazzeraghi, l’unica in grado di piegare il testo alle proprie esigenze interpretative, senza scivolare nel macchiettistico.
Per quanto riguarda il resto della compagnia, emergevano le caratterizzazioni di Don Hugh Evans di paolo Lorimer e del Dottor Cajus di Alessandro Baldinotti.
Gerardo Fiorenzano (Ford), Valentina Gristina (Miss Ford), Cristina Capodicasa (Annina), Giampiero Mannoni (Fenton), Fabrizio Amicucci( Slender), si sono mostrati tecnicamente puntuali e preparati ma carenti nella costruzione di un personaggio che restasse veramente impresso. Da segnalare, più per le accattivanti doti canore, la Miss Page di Rita Abela.
Un teatro Romano esaurito in ogni ordine di posti ha comunque mostrato un grande affetto per tutti negli applausi finali ed in particolare per Leo Gullotta.

Davide Cornacchione 22 luglio 2010