Recensioni - Opera

Lucia di Lammermoor a Bologna

All'inaugurazione ampio consenso per le voci e qualche dissenso per la regia 

Lucia di Lammermoor, in prima recita al Teatro Comunale di Bologna, soddisfa per la sola interpretazione dei cantanti. Un esito contrastante per l’opera donizettiana, con scroscianti applausi ma anche clamorosi dissensi sia a scena aperta sia nel finale.

Buata la regia di Jacopo Spirei, il quale ha tentato di rappresentare un mondo patriarcale che non ascolta, autodistruttivo, accostando il tema della fragilità emotiva della donna, violentata nella sua psiche, a quello del femminicidio e al mondo di sopraffazione e violenza fisica maschile. Un accostamento abbondantemente forte e inopportuno poiché il libretto di Salvadore Cammarano, legato al romanzo The Bride of Lammermoore di Walter Scott, contiene già di per sé la narrazione del violento e tragico dramma di un amore impossibile, tradotto peraltro da Donizetti in musica con arie, duetti e concertati tra i più belli del romanticismo operistico.

Il tema della violenza fisica è così tratteggiato: a una prima scena di passione rappresentata da un bacio tra innamorati, segue lo spintonamento e spregio dell’uomo nei confronti dell’amata; altri uomini strattonano e spingono per terra le proprie donne che appaiono terrorizzate. Queste ricompaiono esanimi nell’ultima scena dell’opera, dove vengono annientate e bruciate per mano maschile.

Di Mauro Tinti è l’unica scena romantica di sapore medievale e matrice ossianica su cui si svolge l’intera opera. Un fitto bosco fa da sfondo al pegno d’amore e al sentimento appassionato, ma contrastato e tragico tra Lucia ed Edgardo di Ravenswood. Nel bosco, cupo e desolato, si celebra il matrimonio tra l’infelice Lucia e Arturo Bucklaw, uomo ricco e potente imposto a lei come marito dal fratello Enrico Ashton. In un quadro integrato nella scena, un’anziana donna raccoglie il sangue colante dal suo braccio in una bacinella. Qui ha luogo la maledizione di Edgardo (Maledetto sia l’istante che di te mi rese amanteAh! Di Dio la mano irata ti disperda) per l’amata e la scena di follia di Lucia, che con convulsiva mano uccide il rifiutato sposo nella camera nuziale. Un’auto rottamata e poi incendiata campeggia sul palco nella scena finale in cui Edgardo si suicida.

L’ambientazione è negli anni ’60: i costumi realizzati da Agnese Rabatti sono variamente colorati e fiorati per le donne, le quali, tuttavia, in contrasto con la solarità e freschezza degli abiti, mostrano lividi e macchie di sangue sul viso; Edgardo, con jeans e giubbotto di pelle nera, sembra Fonzie, benché nulla abbia a che vedere con il latin lover che, nella sitcom statunitense, rimorchia ragazze in moto con un semplice schiocco di dita; l’unico elemento richiamante la couleur locale scozzese, quale aspetto caratterizzante l’opera romantica, è il Kilt indossato da Arturo Bucklaw.

Il punto deficitario della recita è dato dalle sforbiciate realizzate in partitura dal direttore Daniel Oren, tali da ridurre drasticamente il secondo atto che risulta, pertanto, tagliato delle riprese nelle cabalette, della scena della torre, del dialogo che segue a “Spargi d’amaro pianto” e del conseguente intervento finale del Coro. Una scelta artistica che non fa onore a Bologna, quale città della Musica-Unesco, che non rende merito alla Storia e alle trascorse produzioni operistiche del Teatro Comunale e disdegna il palato sopraffino del suo affezionato pubblico, intollerante a una simile scempiaggine. Bene inserite nel mutilato quadro dell’opera le voci del Coro, ottimamente preparato da Gea Garatti Ansini.

Ottimo il cast. Mirabile è la coloratura del canto esibito da Jessica Pratt nel ruolo di Lucia. Con voce morbida e brillante, dispiegata con omogeneità di registro per l’intera tessitura vocale, il soprano anglo-australiano interpreta con magistrale perizia l’elegante cavatina iniziale “Regnava nel silenzio”, così come i passi declamati e il cantabile “Ardon gli incensi” nella scena della “follia”. Nel concertato con il verrofono che dà suono alla voce ultraterrena, il soprano incanta l’uditorio con vertiginosi e raffinati filati. Una pecca si rinviene, tuttavia, nell’ acuto finale del duetto con Edgardo “Verranno a te sull’aura” intonato da Pratt con asperità. Ottima la prestazione vocale del tenore Iván Ayón Rivas (Edgardo) che esibisce un accurato fraseggio nel crescendo del concertato “Chi mi frena in tal momento” come nel dolente tono della cabaletta lenta nel finale “Tu che a Dio spiegasti l’ali”; sicura e disinvolta la sua azione scenica. Non da meno è Lucas Meachem, in Enrico Ashton, con il suo corposo e brillante timbro baritonale. Colpisce per omogeneità di registro e centratura focale la voce del basso Marko Mimica che, nei panni di Raimondo, sfoggia un fraseggio sicuro in ogni parte. Ben apprezzati gli interventi di Vincenzo Peroni in Lord Arturo Bucklaw, Miriam Artiaco in Alisa (mezzosoprano), Marco Miglietta come Normanno.

Quali collaboratori alla produzione dell’opera, realizzata con Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, si segnalano Alessandro Pasini (ripresa della regìa), Giuseppe Di Iorio (luci), Marianna Peruzzo (assistente ai costumi).