Trovo estremamente difficile scrivere del "Giardino dei ciliegi" rappresentato a Brescia prescindendo dalla scopmparsa di Gianfran...
Trovo estremamente difficile scrivere del "Giardino dei ciliegi" rappresentato a Brescia prescindendo dalla scopmparsa di Gianfranco Mauri, che impersonava l'anziano maggiordomo Firs, avvenuta poco prima della replica domenicale. Per effetto di un curioso gioco del destino, il dramma cechoviano termina proprio con la morte di questo servitore che, dimenticato da tutti nella casa abbandonata, si distende sul divano attendendo la propria fine mentre il giardino inizia a cadere sotto i colpi della scure.
Poiché ero presente proprio all'ultima rappresentazione, mi trovo nella particolare condizione di aver realmente assistito alla morte di Firs: il breve monologo con il quale si conclude la sua esperienza questa volta è stato realmente il suo accomiatarsi dal mondo. Firs è morto davvero, e questo porta inevitabilmente a cambiare prospettiva nel ripensare a quel finale; chi era presente quella sera non può non riviverlo con una diversa consapevolezza e con una nuova emozione. E' questo infatti uno di quei momenti in cui il teatro si perpetua nella vita reale al punto che le due nature non sono più distinguibili: all'attore si compenetra il ruolo interpretato e viceversa, perché, questa volta tragicamente, entrambi sono stati colti dallo stesso destino, però nella paradossale situazione in cui è l'uomo a concludere la vicenda del personaggio.
Il ricordo di Mauri quella sera resta quello di un grande interprete, malinconico ma intenso nel monologo conclusivo, purtroppo costretto per scelta registica ad un'interpretazione eccessivamente macchiettistica e caricata di quello che invece dovrebbe essere un personaggio dalla grandissima dignità umana, forse l'unica persona vera in mezzo ad un branco di esaltati.
Non è stato questo comunque l'unico motivo di dissenso che ho provato nei confronti della regia di Marco Bernardi, che ho trovato sostanzialmente anonima e priva di particolari motivi di interesse. L'impianto si risolveva in una pedana sulla quale erano disposti pochi elementi scenici, alla base della quale si trovavano alcuni divani sui quali andavano a sedersi gli attori durante le pause. A parte la scarsa originalità dell'idea ("Arlecchino" di Strehler, "Don Giovanni" di Brook, tanto per citare alcune fonti), ciò che lasciava perplessi era l'apparente inutilità di questa soluzione, visto che comunque nel momento in cui scendevano dalla pedana gli interpreti non sfruttavano minimamente questa nuova condizione, ma abbandonavano il loro personaggio per diventare semplicemente attori distratti ed annoiati in un momento di riposo.
Per il resto lo spettacolo era tutto affidato al talento (non equamente distribuito) dei singoli attori, i quali peraltro non hanno fornito prove memorabili. Fatta eccezione per il Lopachin di Armando de Ceccon, l'unico personaggio che ha offerto una sua evoluzione psicologica, che quindi non si è arroccato in una caratterizzazione per mantenerla inalterata sino alla fine, ma invece è riuscito ad umanizzare in maniera molto stimolante un ruolo che al contrario si sarebbe potuto semplificare in un gretto cinismo, tutti gli altri interpreti raramente sono andati al di là dello stanco professionismo. Patrizia Milani ha costruito una Ljuba troppo fossilizzatasi sulla Valentina Cortese dell'edizione strehleriana, senza peraltro averne il carisma, ma risultandone semplicemente copia sbiadita. Altrettanto pallida la prova di Carlo Simoni nel ruolo di Leonid, la sua caratterizzazione era assolutamente priva della stralunata ironia che a mio avviso è insita in quel personaggio, per cui alla fine la sua recitazione appariva abbastanza impersonale e monocorde.
Tutto sommato generico l'apporto fornito dal resto della compagnia, probabilmente non tanto per demeriti individuali ma più per una regia incolore che non ha saputo trarre né dal testo né dagli attori spunti di vero interesse.
In sostanza si è trattato del solito spettacolo allestito tanto per fare qualcosa, totalmente privo di qualsiasi motivazione interiore, come ormai capita sempre più di frequente a teatro; l'ennesimo mattone posto ad edificare il grande monumento dell'inutilità.
D. Cor.