Recensioni - Opera

Mauri-Moriconi, l'incontro di due storici interpreti

E’ sempre più difficile recensire un recital rispetto ad uno spettacolo teatrale compiuto. Infatti se nella rappresentazione di un...

E’ sempre più difficile recensire un recital rispetto ad uno spettacolo teatrale compiuto. Infatti se nella rappresentazione di un testo si può divagare su lettura ed interpretazione registica, bellezza o squallore di scene e costumi, abilità o inadeguatezza degli interpreti, in una serata “antologica” la situazione è ben diversa. Infatti in queste circostanze subentra un clima più confidenziale, quasi familiare, come se l’interprete in realtà non fosse lì tanto per voler dimostrare qualcosa o per apportare chissà quali nuove sconvolgenti rivelazioni in campo teatrale, ma semplicemente per trascorrere, e far trascorrere, una piacevole, ma allo stesso tempo significativa, serata per sé e per il pubblico.
Inevitabilmente perciò il metro di giudizio cambia, a maggior ragione poi quando non si tratta dell’ “One man show” con testo riscritto per l’occasione, ma di una riproposta personale di alcune delle pietre miliari della storia del teatro, quali poi sono le opere di Shakespeare. E allora che dire di questa serata che ha rivisto eccezionalmente insieme dopo svariati lustri Valeria Moriconi e Glauco Mauri quali interpreti di una selezione di brani del Bardo di Stratford?

Se il teatro non è solo mera rappresentazione fine a sé stessa ma è anche memoria dell’uomo allora possiamo dire di aver partecipato ad un momento di grandissimo valore, arricchito inoltre dalla breve ma comunque intensa cerimonia per la consegna del premio “Renato Simoni” a Franca Valeri. Abbiamo quindi assistito all’esibizione di due straordinari eredi di un’epoca ormai passata ed anche di un modo di fare teatro che, per certi versi, non ci appartiene più. Mi riferisco ad un certo stile di declamato stentoreo ed enfatico, che ormai raramente capita di sentire, che è riaffiorato in alcuni momenti quali ad esempio le scene tratte da “Riccardo II” oppure “Macbeth”. Un “teatro di parola”, se così lo vogliamo definire, che ormai è stato quasi completamente sostituito dal cosiddetto “teatro di regia”. Non vorrei che però si leggesse questa mia riflessione come nota di biasimo, anzi, tutt’altro: la sensazione provata è paragonabile a quella che si percepisce nell’aprire un libro antico, nel riscoprire il nostro passato, o comunque nel rendersi conto che esistono anche delle modalità espressive differenti da quelle che attualmente ci vengono proposte (il che vale soprattutto per gente come me che, per questioni anagrafiche, una certa tradizione non la ha mai conosciuta direttamente). Sarebbe in sostanza come bollare di “stantio” Dante o Machiavelli perché la loro lingua non è più quella che si parla adesso.
Oltretutto trovo doveroso aggiungere che la serata ha riservato momenti di rara intensità ed efficacia: penso al sublime monologo di Cleopatra, presentato in un’interpretazione magistrale, o ancora ai due brevi giocosi monologhi di Puck o ancora al cupo ma lacerante monologo dell’oro da “Timone di Atene”. A ciò si sono accompagnate situazioni più divertiti quali le scene tratte dalla “Bisbetica domata” o da “Kiss me Kate” nonché un improbabile “Romeo e Giulietta” in omaggio alla città ospite, accolto da tutti con grande simpatia.

Concludo con una riflessione: è sempre stata mia convinzione che il vero Teatro (trovo d’obbligo la maiuscola) altro non sia che un grande atto d’amore: amore di chi lo fa nei confronti di chi rappresenta e del pubblico per il quale lo rappresenta. Pur non avendo assistito ad alcunché di straordinariamente nuovo il mio amore nei confronti di Shakespeare quella sera si è accresciuto di un’altra unità.
E questo è quanto basta.

Davide Cornacchione (28/7/01)