Recensioni - Opera

Memorabile Traviata a Firenze

Zubin Metha esalta lo spartito verdiano guidando un tris di cantanti eccezionali: Nadine Sierra, Francesco Meli e Leo Nucci. Interessante messa in scena di Davide Livermore.

Traviata a Firenze è stata salutata dal pubblico con un successo al calor bianco, con quindici minuti di applausi – meritatissimi – per tutti gli interpreti.

Zubin Metha dirige l’orchestra del Maggio Musicale al suo meglio, confermandosi un direttore ormai inarrivabile per esperienza e visione di insieme dello spettacolo. Niente di astruso nella sua Traviata: non un tempo forzato, sonorità coerenti e calibrate, la tinta verdiana esaltata, i cantanti capiti, seguiti e guidati con maestria e perizia. Un vero capolavoro quello di Metha, per una direzione al servizio del canto e dello spettacolo nel suo insieme. Una Traviata così non si sentiva da tempo.

Il giovane soprano americano Nadine Sierra, al debutto nel ruolo, ci regala una Violetta memorabile, che la proietta di colpo fra le interpreti contemporanee di riferimento nel ruolo. Dotata di una figura avvenente, Nadine Sierra, affronta il personaggio con spavalderia e perfetta aderenza scenica. La voce, dal timbro personalissimo, è sicura in tutti i passaggi, espressiva e schietta. L’interprete non ha paura di “gettare l’ugola in platea” e regala una cabaletta travolgente nel finale del primo atto, meritandosi una vera ovazione da parte del pubblico. Ma la Sierra convince anche negli atti seguenti, con un intenso “Amami Alfredo” e un finale vibrante di emozioni e mezze voci.

Al suo fianco uno splendido Francesco Meli, un Alfredo dalla voce sonora, timbrata e sorprendentemente omogenea in tutti i registri. Insieme alla Sierra, canta un “Brindisi” da manuale, per poi dare sfoggio di mezze voci flautate nel duetto finale “Parigi o cara…”.

Giorgio Germont era Leo Nucci, che, alla soglia degli ottant’anni, regala una performance che ha del fenomenale. Una voce intatta, timbrata, proiettata in avanti; un interprete maiuscolo che riesce a disegnare il difficile personaggio dell’antagonista con voluto cinismo e una credibilità straordinarie. “Di Provenza…” è un capolavoro di canto sul fiato, fraseggio, mezze voci e interpretazione, salutato da un lunghissimo appaluso.

Molto accurata la scelta del restante cast con Caterina Piva che dava voce ad un’importante Flora; Caterina Meldolesi un’attenta Annina; Luca Bernard, Francesco Samuel Venuti, William Corrò ed Emanuele Cordaro a completare ottimamente il resto del cast.

A suggellare questa serata memorabile la bella e articolata messa in scena di Davide Livermore, che sposta l’ambientazione nella Francia degli anni sessanta, ispirandosi liberamente al film culto “Belle de Jour” di Luis Buñuel.

La scena viene immaginata in una sorta di casino anni sessanta, in cui vaga una vecchia cameriera, accanita fumatrice, che fin dal preludio porta il caffè nelle varie stanze, da cui escono di volta in volta i clienti. Questa disillusa figura, refrattaria al mondo, porta nella sua fisicità il peso di un ambiente solo apparentemente lustro, ma in fondo carico di dramma e disillusione per cui il fumo accanito è l’unica panacea. Non si può non pensare al film di Buñuel, ma anche alla canzone di Herbert Pagani “Un Albergo di periferia”, con tutti i suoi riferimenti al periodo e all’amore rubato, mercenario, clandestino.

Indubbiamente aiutato dalla capacità scenica degli interpreti principali, Livermore, riesce a delineare in modo assai credibile i tre protagonisti, creando una Violetta moderna e volitiva a cui affianca un Alfredo che è un viziato figlio di papà, più stupido e ingenuo che cattivo. Ma è nella prima parte del secondo atto che Livermore da il suo meglio, a partire dall’ambientazione in uno studio fotografico di provincia, dove la coppia di fuggiaschi si dedicano alla fotografia artistica, usando come sfondo proprio i prati fioriti della Provenza. Assolutamente credibile, calibrato, teso e convincente il lungo duetto fra Violetta e Germont padre. Quest’ultimo è un cinico, con il solo scopo di allontanare Violetta dal figlio: egli non esita a usare qualsiasi mezzo, arrivando a staccare un cospicuo assegno per la donna; la sua commozione finale è solo facciata e prima di andarsene fa di nuovo scivolare in mano a Violetta il famigerato assegno che la donna aveva già rifiutato. Grande e coerente drammaturgia al servizio della musica.

La messa in scena è nel suo insieme ben curata con i bei costumi di Marianna Fracasso, le scene di Giò Forma, ormai collaboratori stabili di Livermore, e le installazioni video di D-Wok. In particolare Livermore azzecca un interessante finale in cui Violetta “esce” per così dire dal proprio corpo e si avvia verso una proiezione luminosa che appare sullo sfondo, ultimo ed efficace simbolo della redenzione tanto desiderata in vita e che la società le ha sempre negato.

Meno efficaci invece le scene d’insieme, che risultano a tratti confuse e qualche volta scontate. In particolare sia l’episodio delle zingarelle che dei toreri non è risolto al meglio, con un affastellamento di persone a proscenio che rendono la scena abbastanza confusa.

Quella presentata a Firenze, è una grande Traviata, poiché regia, direttore e interpreti sono riusciti a far rivivere il grande dramma verdiano, esaltando la musica e il canto. Soprattutto, è non è cosa da poco, facendo vivere la commistione fra parola e musica fondamentale nel teatro lirico, quella “opera d’arte totale” che si realizza e si comprende solo se accade la rara e miracolosa alchimia che fa operare insieme e coerentemente tutte le componenti del dramma.

Il pubblico se ne è accorto e, tutto in piedi, ha portato in trionfo tutti gli interpreti con infiniti applausi nel finale.

R. Malesci (24 Settembre 2021)