Recensioni - Opera

Milano: Fedora strizza l'occhio a Magritte

Al Teatro alla Scala convince in parte l'ambientazione surrealista del regista Mario Martone. Buona la parte musicale

Tratta, come La Tosca puccinina, da una pièce teatrale di Sardou, la Fedora di Giordano ci pone di fronte ad un personaggio femminile quanto mai intrigante che è sì protagonista, ma anche paradossalmente antagonista di se stesso, inserito all’interno di un dramma ricco di suspance, intrighi polizieschi ante litteram, fughe all’estero, veleni e incastonato in un quanto mai generico quadro storico reale.
La protagonista è una donna volitiva, ambivalente, che agisce in modo poco razionale, vista e analizzata in ottica verista, ma con alcuni tratti della femme fatale cara al mondo decadente e ammantata di un vago spirito religioso di matrice ortodossa.

Un’opera dunque complicata ed estremamente sfaccettata di cui non è semplice dare una lettura originale e, in questo, la regia di Mario Martone riesce solo in parte.
Davvero eleganti le scene di Margherita Palli che trasportano la vicenda nella contemporaneità. Nel primo atto un lussuoso ma asettico salotto, con tanto di tv sintonizzata su una partita di calcio e una bella vetrata di fondo che si affaccia su uno skyline di grattacieli, si affianca alla camera da letto, nascosta da un tendaggio, ove giace Vladimiro morente. Il clima è teso, l’atmosfera cupa, i protagonisti statici così da incutere nello spettatore quel senso di oppressione che si ingenera a seguito dell’indagine poliziesca in corso.
Dal secondo atto il clima diventa più arioso, spuntano i riferimenti a quadri di Magritte, soprattutto Gli amanti che ricordano le figure di Wanda e Vladimiro, ma l’idea resta un poco embrionale, non completamente sviluppata, così che anche le spie in bombetta nera, sempre chiaro riferimento all’opera del pittore belga, che si aggirano in scena risultano essere spesso ridondanti rispetto all’azione. Il terzo atto riporta lo spettatore in un contesto alpino, come si addice al panorama svizzero, ricalcando quasi alla lettera L’assassinio minacciato di Magritte che, non a caso, il Teatro alla Scala ha deciso di riprodurre sulla copertina del libretto di sala.
Non sempre azzeccati ci sono parsi i costumi di Ursula Patzak che, nel caso della protagonista durante il primo atto, ne involgariscono senza motivo la figura, togliendole quell’aura di altera principessa che le dovrebbe spettare.

Ottima e ricca di spunti di riflessione la direzione di Marco Armiliato che dà il giusto impatto drammatico alla partitura, staccando tempi distesi con un occhio sempre vigile al palcoscenico, mettendo splendidamente in luce quell’aspetto di estetismo passionale, anche marcato, che è tipico del clima decadente. Una lettura dunque solida, pulita, ma al contempo preziosa, che ha evidenziato molti punti di interesse come nel caso dell’Intermezzo del secondo atto.
Convince globalmente la Fedora di Sonya Yoncheva, forse non particolarmente sfaccettata, ma certo scenicamente dominante. Lo strumento è generoso, l’acuto squillante e preciso, tuttavia il registro grave, che è caratteristica precipua di questa figura di principessa altera e sensuale, risulta un poco evanescente. Al suo fianco Fabio Sartori veste i panni di un Loris Ipanov un po’ statico sulla scena, ma che può contare su una vocalità piena e solida. La sua lettura del personaggio è raffinata, patetica al punto giusto, perfetta nel fraseggio.
George Petean è un De Siriex convincente e dotato della giusta solennità, mentre Serena Gamberoni spicca per il nitore dello strumento e per la capacità interpretativa che la porta a ben tratteggiare la figura di una donna brillante e dinamica.
Bene tutte le parti di contorno; buona la piccola prestazione del Coro del Teatro alla Scala.