Recensioni - Opera

Milano: Un Rigoletto cupo e moderno

A distanza di tre anni, torna in Scala Rigoletto di Giuseppe Verdi, con la regia di Mario Martone, per l'occasione ripresa da Marco Monzini

Uno spettacolo che aveva già fatto parlare per la sua modernità, abituati per tantissimo tempo con l'allestimento iperclassico di Gilbert Deflo.

Bisogna comunque riconoscere a Martone un'aderenza al libretto e l'idea alquanto azzeccata di ispirarsi a "Parasite, il film pluripremiato di Bong Joon-ho, uscito nel 2019. Il regista sostiene che Rigoletto è un'opera politica, che affronta il tema dell'ingiustizia sociale, affida le scene a Margherita Palli. Di grande impatto il vero acquazzone durante la tempesta del terzo atto. Una struttura girevole che divide in maniera netta i due mondi completamente diversi. Da un lato il lusso sfrenato tra escort, droghe, alcolici e sculture di arte moderna, dall'altro i bassifondi cupi, decadenti, dove si aggirano gli ultimi, i reietti.

Rigoletto è il pusher del Duca, praticamente il tramite tra questi due mondi; Monterone invece è un nobile decaduto, diventato un senzatetto con un continuo prurito. Una figura apparentemente lontana dal protagonista, ma unita dal fatto che entrambi sono padri.

Funzionano i costumi moderni di Ursula Patzak, ottime le luci di Pasquale Mari, incisive le coreografie di Daniela Schiavone. Rimane solo qualche perplessità nel finale dalle tinte fortemente splatter, dove una gang di derelitti uccide il Duca e i cortigiani, praticamente una maledizione che colpisce tutti, una sorta di rivalsa, che rovescia però l'idea di sconfitta voluta da Verdi.

L'orchestra del Teatro alla Scala è stata diretta dal maestro Marco Armiliato. Una bacchetta solida e di lunga esperienza. Ha saputo mettere in risalto tutta la lucentezza di questa magnifica orchestra, sin dal lugubre preludio. Non sono mancati i giusti colori, le pregevoli dinamiche, il controllo tra buca e palcoscenico, con momenti di grande pacatezza, su tutti l'oboe solista nel secondo atto, ad altri più vibranti come gli archi nell'invettiva di Rigoletto o nell'energica scena del delitto. I tempi sono stati corretti e non sono mancati gli acuti di tradizione.

Come sempre eccellente il coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi. Solido, potente, capace di affrontare i numerosi interventi con perfette aderenze teatrali che si alternano tra lo scanzonato e il drammatico.

Nel ruolo del protagonista uno dei più acclamati baritoni della scena internazionale: Amartuvshin Enkhbat. Sembra quasi ripetitivo, però è giusto elogiare nuovamente la perfetta dizione, la morbidezza nella linea del canto, i filati, i legati, gli accenti sempre precisi, la sicurezza negli acuti, il timbro così pastoso e avvolgente. Anche scenicamente ci è sembrato più efficace del solito, ottimo nei duetti con Sparafucile e Gilda, riflessivo nel "Pari siamo", furente e disperato in "Cortigiani vil razza dannata", energico nella cabaletta del secondo atto, straziante nel finale.

Gilda era il soprano Francesca Pia Vitale, anche per lei una prova maiuscola e tutta in crescendo. La voce è omogenea in tutti i registri, ben modulata a porgere con grazia e raffinatezza le frasi musicali, sostenuta da un'emissione corretta, con gli acuti puliti e setosi. In "Caro nome" mostra fluidità nelle agilità, "Tutte le feste al tempio" commuove per la grande intensità, in "Sì, vendetta, tremenda vendetta" piazza un sicuro e trascinante mi bemolle. Anche la recitazione è stata leggiadra, misurata e partecipata.

Discorso diverso per Il Duca di Mantova che in questa ripresa ha trovato vari intralci. Il previsto Dmitry Korchak non ha mai cantato, al suo posto è arrivato prima Galeano Salas e poi Piero Pretti, che colpito da un'improvvisa indisposizione è stato sostituito in corner da Davide Giusti. Ovviamente al tenore marchigiano va' il merito di aver salvato la recita con professionalità, nonostante la voce non sembra proprio adatta a questa sala. Canta comunque con buon gusto, l'interpretazione è brillante, baldanzosa e ben si adatta al personaggio. Convincente in "La donna è mobile", una delle pagine più famose dell'opera.

Gianluca Buratto ha fatto di Sparafucile il suo cavallo di battaglia e lo ha dimostrato ancora una volta. La voce brunita, corposa, cavernosa tocca con facilità il fa grave tenuto veramente a lungo nell'incontro iniziale con Rigoletto. In scena poi si aggira in maniera torva e oscura, lasciandosi dietro un’ombra di malvagità. Anche la Maddalena di Martina Belli è diventata oramai un punto di riferimento. Oltre ad avere il physique du rôle (in questa produzione poi è particolarmente conturbante), vocalmente è sempre impeccabile e affonda con il suo timbro scuro unito ad un fraseggio variegato.

Magnifico il Conte di Monterone interpretato da Fabrizio Beggi. Raramente si è ascoltato un personaggio considerato in maniera sbagliata minore con questi risultati. Una voce solida, ben proiettata che risuona quanto mai minacciosa e austera. Di rilievo anche il resto del cast con la sempre brava Carlotta Vichi (Giovanna), gli squillanti cortigiani: Marullo (Wonjun Jo), Matteo Borsa (Pierluigi D'Aloia), Il Conte di Ceprano (Xhieldo Hyseni). Efficace Désirée Giove come Contessa di Ceprano, bene l'usciere di corte (Corrado Cappitta) e il Paggio della Duchessa (María Martín Campos).

Teatro gremito con un pubblico turistico dedito a generosi applausi per tutti, con qualche vetta per Enkhbat, Vitale e Beggi.

Marco Sonaglia (Teatro alla Scala-Milano 25 ottobre 2025)