Imponente l'allestimento firmato da Davide Livermore, raffinatissima la concertazione di Riccardo Chailly
Un allestimento grandioso, curato nel dettaglio, tradizionale, ma al tempo stesso modernissimo quello che apre la nuova stagione del massimo teatro meneghino, il quale vede l’esperta mano registica di Davide Livermore, che si avvale delle belle scene di Giò Forma, per far rivivere l’ultima giornata di Floria Tosca, ambientandola in luoghi che ricordano da vicino quelli reali in cui Illica e Giacosa ambientarono la vicenda.
Ed ecco nel primo atto vari elementi della chiesa di Sant’Andrea della Valle che, sfruttando le più moderne tecnologie da palcoscenico, si muovono quasi di continuo, focalizzando l’attenzione del pubblico ora su un particolare ora su un altro. Grandiosa la scena del Te Deum in cui una gigantesca macchina barocca, pensata per l’ostensione del Sacramento, sul finale avvampa, illuminandosi in modo sfarzoso grazie all’accensione di una serie di candele che ne decorano il profilo.
Sontuosa la sala di Palazzo Farnese in cui si svolge il secondo atto. I video di D-wok, che già avevano animato il quadro della Maddalena, qui riescono a dare vita ai teleri che stanno in cima al muro di fondo, facendo sì che i muti personaggi ivi ritratti prendano quasi parte all’azione. La scena quindi si sdoppia, il pavimento della stanza sale e consente la vista dei sotterranei con le segrete all’interno delle quali Cavaradossi viene torturato.
Un’enorme ala piumata, ricollegabile a quelle dell’angelo che sovrasta il Castello, nel terzo atto nasconde le prigioni in cui Mario è detenuto e al tempo stesso funge, una volta fatta ruotare, da camminamento di ronda. Da lì Tosca si getterà, rimanendo però sul finale quasi sospesa nell’aria, bloccata in un istante aspaziale e atemporale, vista mentre precipita nel vuoto illuminata da fasci di luce bianca.
Perfettamente calibrati i gesti di ognuno con movenze che, soprattutto nel terzo atto, palesano la rabbia repressa di entrambi i protagonisti la quale poi si scatenerà nell’uccisione del tiranno, vissuta con un gusto ben calcolato per il colpo di scena.
Splendidamente risolte le luci di Antonio Castro che ci restituiscono atmosfere livide, rischiarate da luci fredde che talvolta bloccano alcuni personaggi, quasi fossero tableaux vivants, nella teatralità di un gesto, come nel caso degli inseguitori nella scena finale colti nell’attimo in cui tentano di ghermire la protagonista. Meno azzeccati i costumi, soprattutto quelli della protagonista, non scevri di trasparenze che, più che richiamare tessuti di pregio, ricordano moderni abiti sintetici. Meglio va per l’abbigliamento di Scarpia e delle guardie che indossano lunghi cappotti scuri, di vago sapore militare, sui quali rilucono sfumature rosse, forse traccia di antiche macchie di sangue.
Riccardo Chailly sceglie di mettere in scena una Tosca il più vicina possibile alla volontà dell’autore che, già a ridosso della prima rappresentazione, aveva espunto una serie di battute, poche a dire il vero, che in questa edizione vengono riproposte. La sua direzione, che stacca tempi distesi i quali però non mettono in difficoltà i cantanti, dà una lettura intimistica e priva di enfasi del dramma, scevra da sonorità imponenti e ricca di vibrazioni espressionistiche che, all’interno di un grande rigore di fondo, ci restituiscono un Puccini intriso di colori, finezze e sfumature.
Nel ruolo eponimo Anna Netrebko convince e avvince. Vero è che la tendenza ad ingrossare la voce nel registro grave a volte pare eccessiva, ma per tutto il resto la prestazione è di altissimo livello. Il “Vissi d’arte” è uno straordinario saggio di canto in cui tutto risulta perfettamente calibrato: dagli accenti, al legato, al controllo dell’emissione, fino alla più sottile vibrazione o sfumatura. L’acuto svetta adamantino e sicuro e l’interpretazione del personaggio risulta tutto sommato convincente, nonostante una certa freddezza di atteggiamento nel primo atto forse non si addica particolarmente a una donna innamorata.
Otar Jorjikia sostituisce il tenore Francesco Meli colpito da indisposizione proprio a ridosso della rappresentazione. La voce, seppure di volume non straordinario, è ben proiettata, il timbro morbido, il fraseggio adeguatamente cesellato. Una ben comprensibile emozione iniziale, mista a una certa cautela, è subito evidente, ma nel corso della recita essa si scioglie e ne deriva una prova certamente più che soddisfacente.
Luca Salsi è uno Scarpia non ostentatamente crudele e perverso, che gioca tutto sull’espressività della parola scenica, sulla naturalezza del legato, sull’eleganza del dettaglio. La voce corre e non si palesa mai cedimento alcuno, l’emissione è caratterizzata da una splendida omogeneità che, unita alla solidità in ogni registro, diviene la cifra distintiva della sua interpretazione.
Bene anche i comprimari. Una menzione particolare va senza dubbio al Sagrestano di Alfonso Antoniozzi che, spogliato di alcuni tratti macchiettisti di tradizione, appare un personaggio credibile a tutto tondo, supportato da una voce di tutto rispetto che sa riempire la sala.
Lo Spoletta di Carlo Bosi aggiunge alcuni versi latini alla sua preghiera nella scena della tortura che risultano essere uno degli elementi più caratteristici di questa nuova lettura del testo pucciniano.
Con loro: Carlo Cigni (Cesare Angelotti), Giulio Mastrototaro (Sciarrone), Ernesto Panariello (Carceriere) e Gianluca Sartori (Pastorello).
Sempre compatto e ben preparato da Bruno Casoni il Coro del Teatro alla Scala.