Recensioni - Opera

Monaco: Fidelio in gabbia per Calixto Bieito

Messa in scena avvincente e controversa per il regista spagnolo

La Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera ripropone la messa inscena del Fidelio di Ludwig van Beethoven affidata al regista Calixto Bieito anche per la stagione d’opera 2019 – 2020. Si tratta di una produzione d’annata, risalente orami al 2010 ma che non ha perso la sua forza e controversia.

Il regista inquadra tutta l’azione all’interno di una immensa gabbia-labirinto che costringe cantanti e coristi e veri proprie equilibrismi e alle volte a cantare ad altezze vertiginose sopra la buca d’orchestra. L’impatto con questa immensa scenografia è sicuramente fascinoso tanto più che la stessa si muove e si illumina in accordo con la musica già durante l’overture. Una serie di prigionieri anima la scena durante l’overture per poi lasciare spazio ai cantanti che con notevole agilità utilizzano la complessa scena schiacciata a proscenio. I costumi sono indefiniti quanto contemporanei, cosa ormai tanto comune in Europa, che oggi sarebbe forse più controcorrente la scelta opposta. Il primo atto si dipana senza particolari guizzi, tanto che la scenografia appare, forse volutamente, più una costrizione per i cantanti che sono costretti a movimenti tutto sommato limitati.

È il secondo atto che imprime una svolta: la scena si abbassa prima dell’inizio della musica con un effetto stridente e magnetico. Ora è diventata un labirinto disteso su cui fluttuano danzatori aerei. Niente è naturalistico, niente è prevedibile: Leonora riesce ad allontanare Pizzarro cospargendolo con una sorta di acido; Florestano si ricongiunge con Leonora, si cambiano d’abito e si lasciano nuovamente; l’opera è interrotta da un quartetto d’archi di Beethoven suonato da quattro musicisti in gabbia a dieci metri di altezza; Don Fernando è in realtà Joker e distribuisce nel finale attesati di libertà a tutto il coro, oltre che denaro in abbondanza. Diciamo che le idee si assommano ma anche si confondono e si affastellano fra ironia, provocazione e metateatro.

Il regista mette molta carne al fuoco e il suo intento non è mai quello di emozionare, bensì di sperimentare e di provocare. È una regia che parla molto al cervello e poco al cuore, induce a pensare, mette lo spettatore in una costante ansia di comprensione. L’intento è giustamente quello di far discutere, resta il fatto che lo spettacolo c’è tutto e la serata non passa nell’indifferenza. Una grande regia veramente, sinceramente sperimentale.

Fra i cantanti spicca su tutti l’ottima prova di Klaus Florian Vogt, un Florestano indimenticabile per volume, timbro squillante, pulizia ed emissione. Günther Groissböck delinea un autorevole Rocco, serio e compassato, con voce omogenea e ben timbrata. Ben si difende anche Emma Bell con accenti sicuri nella parte di Leonore. Don Pizzarro era Michael Kupfer-Radecky che gestisce bene uno strumento non grandissimo nel volume. Louise Adler è stata una Marzelline accattivante ma dalla voce un poco piccola per la sala. Incolore il Jaquino di Dean Power. Corretto Edwin Crossley-Mercer come Don Fernando. Stefan Soltesz ha diretto l’orchestra di stato bavarese puntando su suoni sfumati e senza tratti eroici.

Vivissimo successo a fine serata per tutti gli interpreti.

(R. Malesci 02/11/19)