Recensioni - Opera

Non bastano dodici donne per una dodicesima notte

Vi sono opere teatrali che per struttura e complessità, pur rientrando a pieno diritto nell'ambito dei capolavori, presentano tali...

Vi sono opere teatrali che per struttura e complessità, pur rientrando a pieno diritto nell'ambito dei capolavori, presentano tali difficoltà nell'allestimento da non riuscire in più di un’occasione a conseguire il risultato prefissato: “La dodicesima notte” fa parte di questa categoria. Infatti pur trattandosi di un testo di indubbia efficacia, per lunghezza, complessità drammaturgica e di linguaggio costituisce un arduo banco di prova per chiunque voglia cimentarvisi. Quest'opera non ammette mezze misure: o si azzecca in pieno ed allora se ne possono apprezzare tutte le qualità, oppure, per i motivi sopracitati, il rischio è quello di dare vita ad uno spettacolo difficilmente sostenibile per lunghezza e discontinuità. Purtroppo anche Antonio Latella nel suo ultimo allestimento che ha debuttato all'Estate Teatrale Veronese non è riuscito ad evitare la trappola (ma potrei citare svariati registi altrettanto blasonati che hanno ottenuto analogo risultato) e la sua "Dodicesima notte", nonostante abbia cercato di puntare su dinamismo ed inventiva, alla fine non ha convinto.
Innanzitutto la scelta di affidarsi ad un cast interamente femminile non ha sortito l'effetto desiderato: è vero che nessuna commedia meglio di questa tratta il tema dell'ambiguità sessuale, grazie al continuo gioco di travestimenti ed innamoramenti reciproci, ma alla fine quest’idea non ha fatto altro che appiattire anziché esaltare questa componente, spingendo oltretutto il regista a forzare la mano in un paio di circostanze ricercando una sensualità che il testo non richiedeva.
La recitazione proposta era molto esteriore, basata su un grande impegno fisico e su un’infinità di gag che avrebbero dovuto alleggerire la complessità e la lunghezza della trama; ma, oltre al fatto che comunque i vari espedienti raramente hanno funzionato e le 3 ore e un quarto si sono fatte sentire, tutto ciò strideva con la scelta di affidarsi alla traduzione di Orazio Costa Giovangigli, ricercata, ampollosa, totalmente priva di quel dinamismo che qui invece sarebbe occorso. Una traduzione del genere avrebbe richiesto un lavoro incentrato sul testo e sulla parola shakespeariana, e quindi probabilmente di una scelta diversa delle interpreti. Con questo non voglio assolutamente negare la bravura di alcune di esse: su tutte il Malvolio di Anna Coppola, il Tobia di Maddalena Recino e l’Olivia di Silvia Ajelli, ma alla fine l’impressione era quella di ammirare dei talenti non amalgamati tra di loro, quasi si trattasse di una serie di prestazioni individuali.

Curatissimo l’aspetto estetico con le suggestive scene di Annelisa Zaccheria, che si basavano su degli enormi palloni che a seconda dell’altezza e della luce con cui venivano illuminati creavano degli effetti estremamente suggestivi, anche se con il prosieguo della commedia il tutto risultava qua e là un po’ monotono ed ogni tanto risuonavano nella mente le parole di Ping nella Turandot: “….sì, sì, belle, sì ma sempre quelle!”
Estremamente importante è stato anche l’aspetto musicale, con un’amplissima serie di brani che hanno accompagnato lo svolgimento dell’opera, anche se, data l’estrema eterogeneità (si andava dal medioevo ai giorni nostri), il più delle volte non se ne capiva proprio il senso. Passi per l’accenno a “Maria” da West Side Story alla presentazione della cameriera Maria; passi per l’Allegretto della “Settima” di Beethoven a sottolineare lo struggimento di Orsino (è un pezzo talmente bello che può stare dappertutto); ma che c’entra la Traviata nella scena della carcerazione di Malvolio? O Bernard de Ventadorn nel finale? Forse la funzionedi molti di questi accompagnamenti era puramente estetica, però la sensazione di guazzabuglio musicale è rimasta.
A mezzanotte e 45 sullo scoccare del finale, frettolosi applausi di cortesia da parte di un pubblico comprensibilmente provato.

Davide Cornacchione 18/07/2003