Recensioni - Opera

Nuovo (?) Ballo in Maschera alla Scala

Un ottimo cast immerso nel manierismo travestito da innovazione

Torna in Scala “Un Ballo in Maschera”, nella nuova produzione firmata interamente dal regista, scenografo e costumista Marco Arturo Marelli. In verità, di nuovo vediamo ben poco.

Non che rimpiangessimo la controversa produzione di Michieletto che firmò l’ultimo Ballo meneghino nel 2013: una proposta sensazionalistica con la quale si forzò la vicenda in piena campagna elettorale americana con Riccardo presidente, Renato body-guard e Oscar capo ufficio stampa, per citare alcune brillanti trasposizioni: un’operazione grottesca che si commenta da sé.

Qui passiamo da un estremo all’altro. Nelle note di regia si dichiara che “una mera lettura degli eventi narrati porterebbe solo alla creazione di un’illustrazione superficiale e improntata al naturalismo”. Ci aspetteremmo dunque un’interpretazione alternativa reale e compiuta, non uno spettacolo di fatto impostato nel solco della tradizione ma banalizzato da un susseguirsi costante di trovate fastidiosamente didascaliche e siparietti gratuiti riservati a turno a ciascun personaggio.

Il più vessato è anche qui Oscar, dal primo atto in cui sventola una maschera da diavolo ogni volta che riprende la frase “è con Lucifero d’accordo ognor” fino all’ultimo atto quando lancia dei brillantini cantando “è un ballo in maschera splendidissimo”. Solo due esempi sparsi tra le infinite e prevedibili non-soluzioni registiche, tutte mediamente di questo calibro.

Leggermente più incisiva è l’insistenza sul tema della morte, rappresentato dal ripetuto aggirarsi di un’allampanata figura bergmaniana da Settimo Sigillo e corvi neri appollaiati qua e là su enormi massi (naturalmente con un sovraffollamento di pennuti nella scena del cimitero, per nostro grande stupore). L’impatto estetico non è certo dei migliori, ma intravediamo almeno un minimo sforzo di rielaborazione che tuttavia da solo non basta a risollevare le sorti dell’allestimento.

Nemmeno l’impostazione scenica brilla per originalità, con riferimenti spudoratamente espliciti all’ormai iconico Don Giovanni di Robert Carsen, dal corridoio prospetticamente infinito chiuso da pannelli semoventi alla fedele riproduzione dei palchi scaligeri abbinati agli abiti total red degli invitati al ballo. È tutto già visto, ma con ben altri esiti altrove.

Aggrappiamoci dunque al comparto musicale, che dà ben altre soddisfazioni nonostante si facciano sentire i cambi decisi per forza maggiore, sia tra le linee del cast sia sul podio. Un ascolto comunque piacevole nel suo complesso, considerata la produzione piuttosto travagliata.

Buon debutto per Giampaolo Bisanti che è stato chiamato a coprire due delle recite in principio affidate all’indisposto Riccardo Chailly, in affiancamento a Nicola Luisotti cui è stata affidata la direzione delle altre cinque. L’inserimento in corsa e la probabile scarsità di prove giustifica il più palese limite di questa conduzione: assai frequente è lo scollamento tra buca e palcoscenico, con evidenti difficoltà in più passaggi anche per i cantanti. Al netto di questo la lettura di Bisanti convince, tendenzialmente sostenuta nel volume e nei tempi, ma con parentesi di lirismo spesso evidenziate da rallentando molto marcati, per una resa complessiva che difficilmente annoia.

Francesco Meli è perfettamente a suo agio nel ruolo di Riccardo, uno dei suoi ormai noti cavalli di battaglia. Canta alla sua solita maniera, con timbro caldo a sostegno di una spinta continua e squillante, alternata a quelle tipiche mezzevoci un po’ artificiose che a primo impatto danno comunque un’idea di varietà interpretativa, una combinazione spesso capace di sedurre il pubblico.

Eccellente il Renato di Ludovic Tézier, che subentra a Luca Salsi nelle ultime due recite e non ne fa sentire affatto la mancanza. Curatissimi i fraseggi e gli accenti, a tratteggiare nel profondo l’amico e il marito tradito in una splendida lettura a trecentosessanta gradi. Meritati e scroscianti applausi a scena aperta per lui al termine della cavatina “Alla vita che t’arride” e di una struggente “Eri tu che macchiavi quell’anima”.

Grande entusiasmo anche per la brillante performance di Sondra Radvanovsky. Voce debordante per volume e densità, sa nei giusti punti assottigliarla in pianissimi commoventi che danno alla sua Amelia un ventaglio di sfaccettature e colori fuori dal comune. Oltre ad un’intensa “Morrò, ma prima in grazia”, sono da menzionare i suoi potenti e al contempo delicati interventi nei duetti d’amore “Teco io sto… Oh, qual soave brivido” e il sussurato “Ah, perché qui, fuggite”, sulle note mortifere del minuetto finale.

Tonante l’Ulrica di Okka Von Der Damerau. Solida nelle vibranti note gravi più che nelle aree alte della tessitura, riesce a conferire con efficacia un’aura inquietante e credibile della sua esoterica figura. Molto efficace in questo senso la cavatina “Re dell’abisso, affrettati”.

Federica Guida è un Oscar irriverente e squillante, vocalmente svettante nelle scene d’insieme anche in mezzo alle altre voci soliste particolarmente debordanti. Agile e fresca anche nella gestione delle scoppiettanti agilità in “Ah! Di che fulgor, che musiche”.

Buono l’apporto dei comprimari, su tutti i due congiurati Samuel e Tom (Solin Coliban e Jongmin Park).

Impeccabile il coro diretto da Alberto Malazzi, con una menzione d’onore per la delicatezza dell’introduzione “Posa in pace” e del contributo nel finale ultimo.

Successo di pubblico al calare del sipario, salvo alcune esagerate contestazioni piovute da una sparuta area del loggione all’indirizzo di Meli e in misura minore a Radvanovsky.

Camilla Simoncini