Recensioni - Opera

Opera da tre soldi: un’opera sempre meno popolare

L'Opera da tre soldi venne rappresentata per la prima volta nel 1928 a Berlino. Il testo è una rielaborazione del Beggar's Opera di John Gay. La vicenda si svolge nel mondo dei gangster e dei derelitti, con intenzioni provocatorie nei riguardi del pubblico borghese, che avrebbe dovuto scandalizzarsi di fronte all'ambiente, ai personaggi e per il linguaggio degli attori (anche se in realtà il pubblico ideale di Brecht sarebbe stato il proletariato, cioè gli operai delle fabbriche e delle industrie berlinesi che però disertarono completamente le rappresentazioni).

Ambientata nei sobborghi londinesi del primo Novecento, l’opera, magnificamente musicata da Kurt Weil, è dotata di una vitalità inesauribile in bilico tra una morale amarissima ed uno spassoso gioco di straniamento.
Secondo la tesi di Brecht infatti i metodi della malavita non sono poi così diversi da quelli da quelli dei gentiluomini e dei ricchi, anche se in questi si può riconoscere in più l’elemento della lotta di classe che per evidenti ragioni non può esserci nel mondo che vive al limite della legalità o che la viola.
Il lavoro coreografico di Mario Piazza muove direttamente dal testo al quale resta praticamente fedele in ogni parte: “Il testo di Brecht mi ha stimolato a trovare l’essenziale di quest’opera. Come un pittore stabilisce i punti di forza sulla tela, ho voluto con un segno coreografico contemporaneo, cogliere tutta la drammaticità ma anche l’ironia espresse dall’autore”. Il linguaggio di Piazza è infatti da una parte legato ai pionieri della danza contemporanea come Laban, dall’altra però non dimentica l’espressionismo coreografico tedesco di Jooss rendendo così lo spettacolo  godibile anche per i meno appassionati di balletto.
Tra gli interpreti principali si è particolarmente distinto Giuseppe Picone nel ruolo del bandito Mackie Messer. Le sue caratteristiche tecniche migliori possono essere riassunte in poche parole: leggerezza nei salti e perfezione nei giri. Buona anche l’interpretazione, che però è passibile di miglioramento.
“Cattivi” e “cinici” al punto giusto proprio perchè sopra le righe, sia Giovanni Patti che Alessia Gelmetti nelle parti di Geremia e Cecilia Peachum. Tutto il balletto è stato connotato dai colori bianco e nero, ma nelle loro scene si è avvertita maggiormente questa caratterizzazione dato che oltre agli abiti sono stati messi in scena sia un tavolo che un trono a scacchi (ovviamente bianchi e neri) a significare che anche mendicanti e storpi altro non sono che pedine da muovere a proprio uso e consumo per raggiungere gli scopi di ricchezza e potere.
Alquanto discutibile l’idea di far cantare chi fino a ieri ha fatto solo la ballerina: se infatti Lorella Doni non se l’è cavata male, così non si può dire purtroppo per Stefania Cantarelli che si è trovata suo malgrado in un ruolo che non le si confà.
Brave Amaya Ugarteche e Marzia Falcon, anche se i passi di quest’ultima prevedevano troppi grand battements o developpes alla seconda.
Le citazioni colte della scena finale, sicuramente d’effetto, sono però andate a mio avviso contro le caratteristiche dell’opera di Brecht: difficilmente il pubblico di operai avrebbe potuto individuare nell’enorme nodo scorsoio l’Oggetto perduto di Man Ray e men che meno qualcuno sarebbe stato in gradi di asserire che la prigione a gabbia per Mackie Messer Mackie Messer fosse stata disegnata da Leonardo da Vinci per il De Divina Proporzione di Luca Pacioli.

Sonia Baccinelli 11 febbraio 2010