Recensioni - Opera

Brescia: Opere buffe del novecento

Giacomo Puccini e Maurice Ravel: singolare accoppiata di atti unici per inaugurare la stagione lirica al Teatro Grande di Brescia. 

La stagione lirica a Brescia inaugura con un curioso dittico del novecento: L'Heure Espagnole di Maurice Ravel del 1907 e il più noto Gianni Schicchi di Giacomo Puccini del 1918. Come si vede dalle date delle prime rappresentazioni, il tentativo di accoppiata ha sicuramente un senso storico e cronologico, se poi aggiungiamo che entrambe sono nate come vere e proprie “opere buffe” l'operazione poteva avere in sé un notevole interesse.

La nuova produzione di Operalombardia infatti parte da buone premesse, ma risulta altalenante nei risultati e nelle scelte. Il regista Carmelo Rifici sceglie di attualizzare entrambi i titoli, ambientando il primo in una sorta di scatola onirica e il secondo in un cinema anni cinquanta con tanto di bar e schermo da proiezioni.

L'Heure Espagnole è una semplice e piccante storia di tradimento, tratta dalla commedia di Franc Nohain, in cui la moglie di un orologiaio spagnolo si diverte a ricevere i suoi amanti sempre il giorno in cui il marito è impegnato a regolare gli orologi pubblici della città. Senonché proprio quel giorno fra i clienti troviamo un mulattiere che vuole aspettare il ritorno del marito mettendo così i bastoni fra le ruote alla bella e focosa moglie. Da qui una serie di espedienti che vedranno ben due improbabili amanti, un poeta sdolcinato e e un ricco e finanziere, finire dentro grosse pendole trasportate su e giù per la casa dall'ignaro quanto muscoloso mulattiere. Alla fine la bella signora, stufa di giochi ed equivoci, decide di appartarsi con il mulattiere, dotato di decisione e virilità, mentre i due amanti sono costretti a comprare le pendole per non far insospettire l'ignaro marito ritornato nel frattempo. Una pura farsa degli equivoci insomma che Ravel condisce con una musica impressionista, spagnoleggiante e sorprendentemente moderna, con richiami strumentali esotici e particolari.

La regia inquadra l'azione in una specie di teatro dei burattini in cui i personaggi si muovono a scatti e sono gravati da strane protesi agli arti, i mobili appaiono e scompaiono dalla graticcia e gli orologi sono accennati da stilizzati cucù meccanici. Il tutto è visivamente interessante, ma blocca l'azione rendendola spesso stereotipata e cerebrale. Ne soffrono tutti gli accenti comici pur presenti nell'opera e non bastano i bei costumi di Margherita Baldoni, ispirati ai balletti russi di inizio novecento, a risollevare la staticità dell'insieme. Nel cast spicca il mezzosoprano francese Antoinette Dennefeld, dotata di un'ottima voce timbrata e di una piena aderenza con il personaggio. Professionali gli altri interpreti: Didier Pieri, Valdis Jansons, Andrea Concetti e Jean-Francois Novelli.

Gianni Schicchi di contro, viene trasportato in un cinematografo anni cinquanta in cui alcune scene, in particolare l'inizio, vengono riprese da dietro le quinte e proiettate in tempo reale sullo schermo del finto cinema. I personaggi, in occasione delle arie famose, siedono come spettatori in una sorta di gioco metateatrale. Anche Gianni Schicchi appare sullo schermo prima di entrare in scena, in realtà con l'unico effetto di accentuare la discrasia fra la descrizione fatta da Rinuccio e l'aspetto reale dell'interprete. La messa in scena nel suo insieme non da nulla di più al fluire già perfetto di uno dei capolavori di Puccini, anzi spesso risulta di intralcio inficiandone la verve comica. In un cast abbastanza altalenante spiccano il Gianni Schicchi di Sergio Vitale e la Lauretta di Serena Gamberoni, mentre il giovane tenore Pietro Adaini è dotato di buono squillo negli acuti ove però il fraseggio è ancora da migliorare. Sergio Alapont ha diretto con sicurezza entrambi i titoli. 

Il numeroso pubblico del teatro grande, ha gradito entrambi i titoli salutando gli interpreti con applausi convinti.

(R. Malesci 29/09/19)