Recensioni - Opera

Parma: Carmen nei deliri di Don José

Originale ma non del tutto risolta la regia di Silvia Paoli per l’inaugurazione della stagione lirica parmense

Carmen ritorna, dopo quasi vent’anni di assenza, al Teatro Regio di Parma per l’inaugurazione della stagione lirica 2022.

Lo spettacolo è stato affidato per la parte visiva a Silvia Paoli, che si ispira alla novella Carmen di Prosper Mérimée, da cui i fecondi librettisti e drammaturghi Henry Mèilhac e Ludovic Halévy hanno tratto l’omonima opéra-comique musicata da Bizet. Nella terza parte della novella lo stesso Mérimée fa infatti visita a Don José, prigioniero e condannato a morte, che gli racconta la sua vita e la vicenda che lo lega a Carmen.

Silvia Paoli immagina perciò tutta la messa in scena come una sorta di flash back, in cui Don José, rinchiuso in una cella grigia e spoglia, rivive in modo ossessivo il suo amore e la sua gelosia omicida verso Carmen. Il grande muro grigio che delimita il mondo da recluso di Don José si alza nei momenti opportuni per far entrare prepotentemente le scene di massa, il mondo esterno da cui il nostro condannato è ormai tagliato fuori.

Nella visione della regista Don Josè è quasi un pazzo, ossessionato dai suoi deliri, per cui si vede spesso circondato da donne vestite da sposa, che probabilmente richiamano il suo desiderio di regolarità infranto dalla sessualità ferina di Carmen. Sogna di incontrare Micaela con un figlio, probabilmente una proiezione del desiderio di paternità, ma quando prende in braccio il pargolo, questo si dissolve in sabbia. Don José scrive sui muri della cella frasi contro le donne; ma soprattutto si immagina ovunque Carmen e ovunque la vede: che spunta da sotto il letto, che canta discinta in sottoveste oppure travestita da secondino che distribuisce il rancio ai prigionieri e così via.

Una visione interessante, in particolare nei primi due atti in cui la regista è riuscita bene o male a piegare in modo efficace la drammaturgia alla sua idea, creando un racconto intelligente e talvolta illuminante. Specialmente nella scena del rancio, con un ballo ossessivo e frenetico (coreografie di Carlo Massari) o nelle scene con Micaela, dove Don José vede continuamente Carmen interporsi fra lui e la pura fanciulla.

L’operazione mostra invece le corde negli ultimi due atti, quelli dove la presenza della folla è preponderante e dove la Spagna e la solarità irrompono violentemente dalla partitura. La narrazione tende a sfilacciarsi, diventa in parte ripetitiva, ma soprattutto non rende giustizia alla musica di Bizet. In particolare tutta la scena degli zingari risulta poco originale, quasi un ritorno al classico con le solite valigie della carovana di contrabbandieri, senza però avere lo sfarzo e la sfrontatezza gitana richiamata dalla musica. Così come nel quarto atto, in cui la festa e la sfilata dei picadores, oltre che l’arrivo di Escamillo, è immaginata come una specie di funerale in palese contrasto con la musica. Si assomma al tutto un’altra scena statica che sostanzialmente annoia e non crea il contrasto gioioso al tragico e noto finale.

Si evince la netta impressione che per gli ultimi due atti sia mancato il tempo in prova: se nei primi due abbiamo riscontrato coerenza e accuratezza, anche nei movimenti del coro, negli ultimi due sembra che tutto sia stato un po’ troppo semplificato: il coro entra ed esce in fila da sinistra e destra oppure è piazzato in gruppo a proscenio; lo stesso dicasi per i cantanti, in particolare le parti di fianco.

La trasposizione agli anni sessanta del novecento e il riferimento all’emancipazione femminile di quel tempo, a cui accenna la regista, non risultano pregnanti, tanto che l’epoca, se non fosse per le pettinature femminili, è difficilmente riconoscibile dati i generici e poco originali costumi di Valeria Donata Bettella. La scena, a cura di Andre Belli, resta sostanzialmente cupa e claustrofobica e se pur l’idea del muro, che diventa grata trasparente da cui Don José sente le sigaraie litigare, risulta scenograficamente azzeccata, soprattutto nel terzo e quarto atto ritroviamo stilemi ripetitivi e poco originali. Poco incisive e scontate, anche per l’uso eccessivo che se ne fa negli ultimi tempi, le immagini proiettate sulla grande parete grigia, a cura di Francesco Corsi, che risultano poco più che oleografiche.

Nel finale Don José si trova nella sua cella, circondato da ben cinque Carmen in abito da sposa, fuori la corrida è un eco lontano. È un’ossessione, un’orgia psicotica: egli uccide nuovamente Carmen per uccidere i suoi fantasmi. Il tutto è algido, distaccato. Carmen cade insieme ai suoi doppi, quasi lontana dal suo assassino che si accascia in un angolo del letto. L’incubo è finito.

In sostanza abbiamo assistito ad uno spettacolo con una chiara e coerente idea registica, ben concepito e discretamente organizzato, che tuttavia ha il difetto di ottenere esattamente il contrario di quello che forse si proponeva la regista: il protagonista, la vera vittima da aiutare, diviene in realtà Don José, trasformato in un povero pazzo. Carmen è un’ossessione, ma passa inevitabilmente in secondo piano.

Dal punto di vista vocale la seconda replica è stata caratterizzata da ben quattro sostituzioni dell’ultimo minuto. Sono stati sostituiti con gli artisti del secondo cast sia Carmen che Escamillo, ma anche Frasquita e il Remendado.

Su tutti svetta l’esperienza e la voce del tenore messicano Arturo Chacon Cruz, che cerca di seguire con convinzione e coinvolgimento i dettami della regia, presentandoci un Don José disperato e febbrile, in preda ai suoi deliri da galeotto condannato. Se a questo aggiungiamo una voce piena e ben calibrata, sempre timbrata e omogenea, con acuti sicuri, anche se talora leggermente sbiancati, otteniamo un’ottima e convincente performance. Il pubblico parmigiano, prudente all’inizio, ha riconosciuto il livello del cantante tributandogli un applauso convinto dopo la sua aria “La fleur que tu m'avais jetée”, ben eseguita, con partecipazione e trasporto.

Il mezzosoprano romeno Ramona Zaharia canta Carmen a livello internazionale dal 2012 ed è stata ingaggiata per questa parte anche dal Metropolitan di New York. A Parma ha sfoggiato una voce sicura e svettante in particolare nel registro acuto, ove ha dimostrato anche una notevole potenza vocale. Pur meno a fuoco nel fraseggio del registro grave, il personaggio è stato comunque ben cantato e interpretato con convinzione. Certo la regia penalizza notevolmente la verve recitativa del personaggio, relegandolo ad una sensualità più stilizzata che fisica.

Micaela era Laura Giordano, che ha ben cantato dotata com’è di una voce molto omogenea e ben proiettata in tutti i registri, ricevendo un particolare apprezzamento da parte del pubblico nella sua aria del terzo atto “Je dis que rien ne m'épouvante”. Francesco Luongo era un Escamillo abbastanza impacciato scenicamente, ma che ha portato a casa la serata con professionalità. Tutte le parti minori cantavano volenterosamente ma con la mascherina, cosa introdotta alla seconda replica, non abbiamo infatti ravvisato la stessa cosa nelle foto della prima rappresentazione. Pertanto la loro performance ne è stata notevolmente inficiata. Tutti professionali comunque: Fabio Previati, Saverio Fiore, Gianni Giuga, Massimiliano Cattelani, Anna Maria Sarra e Chiara Tirotta.

Jordi Bernacier dirigeva l’orchestra dell’Emilia Romagna “Arturo Toscanini” ottenendo un buon amalgama fra buca e palcoscenico, ma senza andare oltre una accurata lettura di routine.

Applausi convinti per tutti nel finale.

Raffaello Malesci (14 gennaio 2022)