Recensioni - Opera

Parma: Convince la ripresa di Falstaff al Festival Verdi

Salutato da applausi convinti il ritorno al Teatro Regio dello spettacolo firmato da Jacopo Spirei. Valido anche l'aspetto musicale

La bandiera palestinese che, con la trilogia shakespeariana, ha caratterizzato il fil rouge di questa edizione del Festival Verdi di Parma, ormai prossimo a chiudere i battenti, faceva la sua comparsa anche all’ultima recita di Falstaff, lo scorso 16 ottobre, tra applausi e qualche isolata nota di dissenso. E mentre, in questo tempo convulso e drammatico, ci si interroga – individualmente e collettivamente – sulla legittimità o meno che il teatro si faccia (anche) luogo di simili dibattiti, rimane, per noi che c’eravamo, la sensazione di aver afferrato al fotofinish, dopo averne la prima a causa dello sciopero generale indetto a qualche ora dall’alzarsi del sipario, uno spettacolo memorabile, acuto senza gratuite provocazioni, audace senza eccentriche spavalderie.

Se la conduzione equilibrata ma piuttosto statica di Michele Spotti tentennava nell’immerger appieno le mani della brava Filarmonica Toscanini nel ribollire di una partitura che, non solo perché l’ultima, sembra contenere, in una mirabolante girandola di citazioni, calembours e arguzie, la vertigine delle altre, la meraviglia era tutta sulla scena. Nella regia di Jacopo Spirei – ancora capace, otto anni dopo il suo debutto, di divertire e di turbare, ma soprattutto di rivelare, come fanno i classici –, nelle luci di Giuseppe di Iorio e nei costumi di Nikolaus Webern, straordinari, ognuno a modo proprio, nel disegnare con impietosa poesia un’Inghilterra contemporanea e vagamente gotica in cui l’Osteria della Giarrettiera è uno squallido pub con pavimenti sconnessi, pile di piatti sporchi e lampadine rotte, la città è un groviglio di semafori, eleganti abitazioni con interni altoborghesi a vista  e angoli dove i giovani, con minigonne e kilt, ciuffi punk e chiodi di pelle ostentati come una bandiera, amano appartarsi. E poi c’è la foresta, magicamente nascosta sotto alle case sospese a mezz’aria (È sogno o è realtà? si chiede poco prima un angosciato Ford). Più che un bosco, un giardino incantato, dove l’amore acerbo e impaziente tra Fenton e Nannetta è la promessa di un frutto lì pronto da cogliere. E la grande quercia di Herne? Falstaff alza gli occhi, oltre le poltrone, verso la galleria. Eccola, mentre le luci tingono la sala di un lunare giallo oro: è lei, il sontuoso lampadario del Regio, con le sue foglie di mille cristalli. Un colpo di teatro magistrale.

Troppo spesso regie spicce e sommarie fanno di lui un personaggio caricaturale, banalmente comico, trivialmente fantozziano, ostaggio dell’epa che porta in giro come un triste trofeo. Ma Falstaff è ben altro. Danza, incerto e poetico, sul filo invisibile che separa rimpianto e desiderio, passato e futuro. Danza con noi, e ci fa partecipi di quella struggente, dissonante elegia su ciò che resta, quando tutto finisce, che non può non riguardarci. Con uno strumento parimenti poderoso e duttile fatto di legati impalpabili e di una vena intimamente indulgente, di un’espressività anche corporea capace di dar voce al non detto, Misha Kiria scavava con inesorabile lucidità nelle ombre di quest’uomo, nella sua maldestra tela di improbabile seduttore, conducendoci nell’autunno di una vita ormai stinta nella quale, a dispetto di quel che millanta con tronfia sicumera, lui stesso stenta a riconoscersi.

Attorno a sir John, era uno spettacolo di vocalità ad inebriare, a partire dallo strepitoso quartetto di donne capitanato dall’Alice di una smagliante Roberta Mantegna, micidiale nel coniugare, con tecnica e adesione inappuntabili, civetteria e sagacia, e degnamente contornato dalla puntualissima Meg di Caterina Piva e dalle monumentali Quickly di Teresa Iervolino, e Nannetta di Giuliana Gianfaldoni. Non da meno il comparto maschile. Il tormentato, autorevole Ford ben focalizzato da Alessandro Luongo trovava perfetto contraltare nell’argento luminosissimo del Fenton dipinto con trepidante ardore da un magnifico Dave Monaco, al suo debutto nel ruolo. A fuoco anche il Pistola di Eugenio di Lieto e il Bardolfo di Roberto Covatta. Alla fine, vince l’amore, le giovani generazioni prendono il posto delle vecchie. Quelli si amano, questi imparano. Su un trascinante Tutto nel mondo è burla articolato, insieme al Coro del Regio istruito da Martino Faggiani, con graffiante precisione, sulla sua morale dolceamara di questa favola all’inglese, calava il sipario, con i colori della Union Jack.