
Al Teatro Regio il penultimo capolavoro verdiano con la regia astratta di Federico Tiezzi
Da giorni, e per un mese circa, attorno agli eventi dislocati tra il Teatro Regio e lo scrigno di Busseto, a Parma c’è tutta una città che pulsa e vibra sulle corde del Maestro. il Festival Verdi, d’altronde, è questo: una irresistibile girandola di opere, concerti, installazioni, parate che coinvolgono in una rutilante festa popolare generazioni lontane e che richiamano nella città ducale un pubblico sempre più internazionale. Il cartellone di quest’anno è un dichiarato omaggio a Shakespeare, figura che attraversa l’intero cielo verdiano come una stella fissa, A Busseto c’è il delizioso Macbeth, nella versione del 1847, affidato ad una ciurma di giovani voci guidata da Francesco Lanzillotta con regia di Manuel Renga, mentre al Regio sono le ultime due opere a spadroneggiare. Falstaff, del 1893, nella regia di Jacopo Spirei con la direzione di Michele Spotti, e Otello, scritto nel 1887, con cui, lo scorso venerdì 26, il Festival ha alzato il sipario.
A domare con mestiere i tempestosi flutti di una scrittura che sfidava i valorosi musicisti della Filarmonica Toscanini era Roberto Abbado, che, senza rinunciare alla dimensione sontuosa del respiro, esplorava le pieghe del dramma in cerca della sua dimensione più intima, affidata all’Otello antieroe di Fabio Sartori, efficace nel donare al suo protagonista la dolorosa, vuota consistenza di uomo fragile, influenzabile, aggrappato ad un amore come ad un territorio da difendere a costo di morire e di uccidere. È in quel vuoto che si annidava lo Jago solo sommariamente manipolatore di Ariunbaatar Ganbaatar, voce poderosa quanto intimamente distante dal tratteggiare l’insinuante doppiezza del suo personaggio. Più a fuoco il Cassio di Davide Tuscano e il Roderigo di Pittari, comprimari di limpida vocalità, insieme all’Emilia di Natalia Gavrilan, prestata ad una puntualissima resa. Nei panni di Desdemona, in una prova di ammaliante intensità, era Mariangela Sicilia, giunco di devota caparbietà nel resistere alle ossessioni del suo amato fino a consegnarglisi nell’estremo sacrificio della vita.
La regia di Federico Tiezzi, con luci di Margherita Palli, era un viaggio al termine della notte fino al suo fondo inconfessabile: un cubo nero profilato di neon sgargianti, un’infinita stanza della tortura. In scena, prima dell’ultima scena – un omaggio alle solitudini sconfinate di Hopper - tutto era spazio buio, astratto, senz’aria, senza luce. Il mare, da quelle geometrie asfittiche, era lontano. Ruggiva iracondo solo nel turbine dell’orchestra per deporre la corrente delle sue velenose spire nella mente di Otello. E mentre scattavano gli applausi finali a tutto il cast e al coro preparato da Martino Faggiani, comparivano, scintillanti, la bandiera palestinese e la scritta “Free Gaza”. Anche là dove l’umanità sembra spenta, questo Otello ci insegna la necessità di osare la speranza. Prossime repliche il 5,11 e 19 ottobre.