Recensioni - Opera

Parma: Macbeth in versione francese inaugura il Festival Verdi

Caldo successo per la prima riproposizione in tempi moderni in forma di concerto della versione originale ascoltata a Parigi nel 1865 

L’assetto è quello della Nona. Palco delle grandi occasioni, coro schierato, orchestra al completo. Niente scene, solo l’incanto farnesiano del Palazzo Ducale a fare da sfondo con la sua grazia guarda alla Parigi illuminata e ne ruba le dolci geometrie da trasporre qui, nella profonda pianura, a libera miniaturistica citazione delle Tuileries. Attorno, il polmone del Parco che per la prima volta apre i cancelli e presta i suoi frondosi spazi alla grande musica. Niente Beethoven, però; qui siamo a Parma, a casa di Verdi. Macbeth è il primo titolo di un Festival edizione XX che doveva essere un, pur meritevolissimo, ripiego rispetto alle iniziali progettualità poi spazzate via dalla bufera Covid ed invece si profila – a dispetto del suo cartellone centellinato in poche date – come uno dei più preziosi delle ultime annate. Festival in senso vero: ambizioso, caparbio, occasione spregiudicata di osare cornici diverse, rappresentazioni di rara frequentazione, sfidando in primis la clemenza meteorologica di un settembre che a memoria non ricordiamo così mite.

Eccolo, il Regio che dribbla la pandemia: con i rami degli alberi secolari al posto dei palchetti ed il cielo stellato a fare da soffitto. Pubblico disposto, con scrupoloso distanziamento, nei settori della platea allestita per l’occasione – in uno sforzo che non esitiamo a definire eroico-; a venire in soccorso quando la notte cala e la tremenda umidità padana entra nelle ossa, vivamente consigliata è una pashmina avvolgente o, per i più goderecci, un assaggio di fumanti anolini in brodo preparati dal servizio ristorazione. Tutti i sensi sono appagati, in questo Festival che ha come titolo “Scintille”: lo stupor di un’eleganza che a Parma è sostanza prima ancor che (irrinunciabile) forma, ma anche lo scavo incessante sul compositore, alla ricerca di sempre nuove angolazioni di approccio e di analisi.

Titolo iperclassico della tradizione lirica, Macbeth – pietra di volta nel catalogo delle ventisette, impregnata in una tinta che nel 1847, anno di prima stesura, rappresenta il dardeggiare di uno sguardo premonitore in cui, nelle geometrie ancora nette della forma chiusa, affiorano strabilianti intuizioni espressive – è invece un debutto nella sua omonima versione francese, che Verdi scrive non senza complicazioni per il pubblico parigino, quasi vent’anni dopo. La lingua non è più quella, tagliente ed ermetica, del libretto italiano, la forma sacrifica il graffio della sua vertiginosa concisione a vantaggio di un maggiore respiro che tenta di ammiccare al grand opéra. Balletti, intermezzi orchestrali, cerniere tra quadro e quadro ne stemperano l’arroventato clima a favore di una maggiore distensione. Per chi avesse acquistato ad occhi chiusi il biglietto, l’impatto con la novità deve essere stato notevole; per noi, che in questa proposta cercavamo, oltre al tradizionale groviglio di sangue e potere, ambizione e follia che nella sua micidiale macchina drammaturgica ogni volta cattura senza scampo, il doppio fondo di un progetto strettamente culturale, il suo impagabile valore aggiunto, è stato trovarci per la prima volta di fronte alla revisione a cura di Candida Mantica sull’edizione critica firmata da David Lawton. Una restituzione fedele e scrupolosa, insinuante, che nelle asfittiche contingenze della messa in scena risultava aggrappata alla sola parola – una parola che, per ragioni di forza maggiore, non poteva contare sull’aiuto dei sottotitoli, che anche il buon conoscitore della lingua francese spesso non coglieva in tutte le sfumature, ricorrendo così alla app scaricabile da smartphone messa a disposizione del teatro – ed affidata alla sola musica.

Ed a pensarci, il teatro di Verdi è già lì, nell’abbraccio inestricabile che la parola scenica scolpisce senza eguali. La parola canta, la musica parla e dice anche l’inconfessabile. Una dentro l’altra, come inscindibili scatole cinesi. Lo sa bene Roberto Abbado, bacchetta a cui da anni il Regio affida le operazioni più alte per partitura e collocazione rappresentativa, dalla Luisa Miller dello scorso anno nell’inedita cornice di S. Francesco dal Prato a quel Le Trouvère, contraltare francese di Trovatore, che nello spazio metafisico del Teatro Farnese la regia di Robert Wilson elevava ad esperienza assoluta. Alla guida di quella duttile formazione che è l’Orchestra Toscanini contrappuntata dal sempre valoroso coro del Teatro istruito da Martino Faggiani, Abbado aggirava l’inevitabile ostacolo della dispersione sonora (pur ricondotta ad un effetto di magnifica resa grazie ad una perfetta amplificazione) e del distanziamento tra i musicisti attraverso un'intelligente scelta di passo, stringata e sferzante al tempo stesso, giocata sull’incalzare ritmico che sembra divorare senza mai subirla una scrittura tutta balzi e sciabolate di chiaroscuri. Diverse le preziosità che l’en plein air rendeva inaccessibili al disegno di una visione pregevolmente nitida e sempre sorvegliata. E, al tempo, diverse le preziosità che proprio lo spazio naturale (Toscanini amava dire che all’aperto solo i pic nic risultano riusciti) regalava all’ascolto: lo stormire dei rami, gli echi di uccelli notturni, la percezione viva e partecipata di un'incombente presenza che, nel dramma shakespeariano, prende forma e corpo e si fa essa stessa personaggio.

Foresta di sabba e di incontri fatali, foresta di dubbi e di aneliti che finiranno per risucchiare i protagonisti nel loro nero gorgo, foresta di agguati e di morte. Foresta dell’anima. Attraverso le sue fitte maglie, tra radure e labirinti, Abbado ne conduceva con mano sicura il luminoso cast capitanato dal Macbeth di Ludovic Tézier, meritevole non solo dell’impeccabile pronuncia da madrelingua ma anche di saper plasmare – senza alcun ausilio scenico - la linea del canto addosso alla tormentata emotività del suo personaggio, tra detti e non detti, nell’altalena tra umori e sentimenti che ne caratterizza la tragica parabola. Un uomo a tutto tondo, pietoso e spietato, messo a nudo nel castello di carte che ne riveste gli agiti; un burattino che uno dopo l’altro taglierà i fili della propria esistenza. Autorevole anche la Lady Macbeth di Silvia dalla Benetta, volteggiante per l’intero corso dell’opera attorno al delirante precipizio che, in un intenso crescendo emotivo, giungeva nelle pagine finali, a dipingere la sua ormai stremata coscienza di folle; la sua vocalità puntuale e tagliente, imperiosa nella tessitura medio grave, rivelava qualche traccia di affanno nelle lame delle escursioni acute. Perfettamente a suo agio era il Banco di Riccardo Zanellato, dall’emissione sempre plastica e straordinariamente espressiva, salutato da applausi a scena aperta. Applausi anche per i comprimari, a partire da Giorgio Berrugi, Macduff di smaltata autorevolezza e da Natalia Gavrilan, Contessa dagli accenti drammatici ed accorati.