Recensioni - Opera

Parma: Simon Boccanegra riaccende la passione al Teatro Regio

Applausi per la parte musicale e qualche contestazione per l'allestimento dell'opera verdiana presentata nella desueta versione del 1857

Un’edizione punteggiata dalle contestazioni, quella del Festival Verdi 2022 di Parma, ormai avviato verso i titoli di coda. Prima quella più “politica”, legata al primo titolo in cartellone (per la cronaca, “La forza del Destino” affidata non alle forze locali ma ad orchestra e coro del Comunale di Bologna), poi quella squisitamente “teatrale”. Buon segno, comunque la si veda, che dice un pubblico vivo, vigile, critico, anche quando (forse) in torto. Se a tuonare nel primo caso erano soprattutto maestranze e platea, offese nel ruolo di padrone di casa, nel secondo a stracciarsi le vesti erano i paladini della “tradizione”, gli irriducibili loggionisti fieramente arroccati in piccionaia.

Pomo della discordia, la regia firmata da Valentina Carrasco all’edizione veneziana del 1857 di Simon Boccanegra, esito solo parzialmente sbozzato su cui Verdi avrebbe più volte rimesso le mani, fino alla definitiva stesura giunta nel 1881, dopo un travaglio tormentato e costellato da ripensamenti. Qui, grande assente, relegato insomma ad elemento solo marginalmente occhieggiante da lontano, tra spiragli offerti da balconi e finestre socchiusi, è il mare. La brezza, che nella versione definitiva immergerà da subito, dal primo mormorio degli archi che soffia sul Preludio, la vicenda nella sua trascolorante tinta, qui si ferma oltre le pareti di un edificio asfittico che sembra non guardare ad altro che alle proprie viscere. Un palazzo? Più che altro, una fabbrica grigia tutta antri, penombre, silenzi pneumatici. Boccanegra, doge controvoglia, mite e frainteso, marito e padre oppresso dal peso del passato, è in questo primo Verdi uomo del porto, sghemba comparsa di opera ancora stesa per pennellate nette, ruvide, aperta da marcette dai tratti ruvidi e spicci.

Sul podio, alla testa della Filarmonica Toscanini, era Riccardo Frizza a dare il passo e il segno alla magmatica scrittura, assecondata ed anzi esaltata proprio nel suo carattere spurio, spesso brusco, di creatura in fieri. In scena, questa Genova non ancora nobilitata dai tratti meditativi dell’ultimo Simon, asciugata del mare, si traduceva in perfetto unisono con la buca in un racconto sociale, in bianco e nero, slavato, deliberatamente prosaico, come ben raccontava la scena popolare di festa con tanto di palloncini e striscioni in chiusura di primo atto. La Genova delle acciaierie, dei lavoratori in marcia, dei sindacati e delle braccia incrociate. La Genova di tanti volti senza nome, lì a rivendicare, a denti stretti, diritti spesso negati, a denunciare la fatica, il cannibalismo dei potenti, l’ingiustizia come costante. La magion dei Fieschi, da cui un sontuoso Riccardo Zanellato usciva, scolpendo il suo personaggio con la luce dolente di uno scalpello raffinatissimo, altro non era che uno squallido container da cantiere, lo stesso da cui sarebbe apparsa, di lì a poco, la Amelia intensa e a tratti (giustamente) stucchevole di Roberta Mantegna. Una gabbia metallica vista da fuori, una casetta di bambole al suo interno, finta come lo sono i sogni coltivati in cattività, con tanto di fiori (altrettanto finti). Qui la giovane aspettava il suo amato, un Piero Pretti di bello squillo e di proverbiale, ardita irruenza, anche se leggermente affaticato da un’improvvisa indisposizione, senza sapere che proprio lui è (suo malgrado) l’acerrimo nemico del padre. Amelia è creatura strappata alle radici, nutrita di miraggi, assediata da ombre; una bambina in un corpo di donna. Quando finalmente riabbraccia il padre ritrovato, lo fa con l’incrollabile sicurezza con cui l’infanzia si affida ai sogni, certa che un giorno saranno esauditi. Lui, questo Boccanegra prima maniera, aveva la voce, lo scavo, la profondità introspettiva di un magnifico Vladimir Stoyanov; voce bronzea dal fraseggio vellutato che, di atto in atto, di anno in anno, si tingeva dei colori dell’autunno, evolveva e trascolorava, accompagnando personaggio e vicenda verso il suo epilogo. La solitudine del potere, quella che emergerà in tutta la sua nobile drammaticità nella versione del 1881, qui non ha la stessa statuaria pregnanza. Simon è e rimane un personaggio incompiuto, un leader incompreso e mai pienamente nel ruolo, come ben sottolineavano i costumi di Mauro Tinti, il bersaglio perfetto per congiure e vendette di palazzo. Un palazzo in cui, al posto di affreschi e stucchi, erano capi di bestiame macellati e appesi a colpire (in tutti i sensi) l’occhio e lo stomaco. Lo strazio di corpi in bella mostra; le trame della politica raccontate come una macelleria. All’uncino, carne morta impietosamente esibita, attorno, carne viva sempre più risucchiata dalla logica della mattanza. Qui il Paolo Albiani di un puntuale David Cecconi ordiva la trama omicida, qui – come in una tela di Bacon - si consumava anche la resa dei conti tra Simone e Fiesco: un’ultima stoccata ad un animale morente. Bucolico il finale, con il doge seppellito sotto spighe di grano (gli sia lieve la terra), accompagnato da una folla silenziosa recante in braccio un agnello. Il sacrificio dell’innocenza alle sorde leggi del potere. Applausi vivi agli interpreti, ancora (noi eravamo alla terza recita) qualche rigurgito di insofferenza verso la messa in scena, con spettatori che disgustati abbandonavano la sala alla fine del primo atto, imprecando in un improbabile italiano “orribile règia”. In tutti i sensi, una bella serata di teatro.