Il secondo titolo del Festival Verdi in forma di concerto diretto da Michele Mariotti
I rigori di un settembre fino ad ora sin troppo clemente hanno convinto il Festival Verdi a tornare a casa, tra gli stucchi e i velluti del Teatro Regio, dopo la parentesi – suggestiva e pienamente riuscita, fino all’irrompere di pioggia e temperature ad una sola cifra – nella cornice del Parco Ducale. A riportare il Maestro là dove da ormai vent’anni lo attende un mese di festeggiamenti a ritmo serrato è stato l’allestimento di Ernani, secondo titolo in cartellone dopo il riuscito Macbeth affidato alla bacchetta di Roberto Abbado.
Quinta opera del catalogo verdiano, figlia (come Macbeth, d’altronde, di tre anni successiva) del febbrile ritmo creativo che di fatto troverà tregua, seppur breve, solo dopo il trittico Rigoletto – Trovatore – Traviata, Ernani è magma ancora liquido, colata lavica di straripante forza drammaturgica, refrattaria ad ogni amor di schematismo. Per questo, forse, occupa un posto ingiustamente marginale nella proposta delle stagioni liriche. Le radici sono affondate nel primo romanticismo, nella tipica giostra di ardori e languori chiusa in mirabili recinti di arie, cori e cabalette. Ma i rami guardano oltre, come si evince nella tinta già brunita – nelle colorazioni espressive che, perfettamente a suo agio nel mutuare la lezione di Hugo, Verdi ottiene mescendo con straordinaria sapienza i pigmenti dell’odio e dell’onore, dell’amore e del sacrificio di sé -, tinta che colloca Ernani in un territorio al di fuori delle mappe, vicina e lontana agli ardori giovanili quanto agli esiti degli anni a venire. Opera senza tempo, dunque, laboratorio visionario per quei profili che si staglieranno nella maturità verdiana – Filippo II e Don Carlo, ma anche ritratti femminili di ardimentosa bellezza come Amelia o donna Leonora - scivolosa tra le mani di chi la deve tenere a bada, troppo spesso fraintesa da chi ne accoglie la restituzione.
D’altronde, è quasi inevitabile cadere nella trappola di una vicenda intricata tutta intrighi e complotti, e risolverla a schioppettate e vampate di decibel, cavalcando le già aspre marezzature dal libretto di Francesco Maria Piave. Quasi inevitabile per tanti. Ma non per Michele Mariotti. L’avevamo ascoltato per la prima volta nel 2008 all’Auditorium Paganini, andando a memoria a ritroso nel tempo, alla testa di quella stessa Filarmonica Toscanini che il Direttore pesarese ha qui ritrovato nella Parma del Festival. Anche in quell’occasione ci aveva colpito il nitore con cui il gesto di un allora ragazzo o poco più sapeva inabissarsi nella pagina senza tuttavia rimanere mai a corto di fiato, senza smarrire la lucidità di una visione complessiva. Oggi Mariotti è nome di risonanza internazionale, anche se sembra non aver perso quella sciolta informalità che lo fa accostare alla partitura con passo agile, senza alcun indugio o compiacimento. Il suo Ernani, complici una compagine di pregevole duttilità ed un coro come sempre strepitoso, era una meraviglia sin dall’inizio. Tanto da far dimenticare ai 600 presenti la necessità della scena. Sin dal Preludio, presago, fraseggiatissimo, fremente di bellezza e di rimpianto, di eroica compostezza. Lì vi erano già disegnati, in quella manciata di minuti di musica, i contorni di questo Ernani, bandito verticale nel dar gesto alla parola, araldo di un tempo che oggi avrebbe tanto da insegnare, con la sua folle coerenza, al nostro presente grondante banalità. Da qui, Mariotti avrebbe dipanato con sovrano equilibrio, con la consueta pungente eleganza, la torrenziale sequenza di atmosfere che Verdi rammenda con ritmo incalzante nei quattro atti dell’opera, dando vita di fatto ad un vero e proprio “teatro dell’anima”. Un’interiorità esplorata mai così da vicino, con leggerezza e pudore ma al tempo con impietoso occhio indagatore. E magicamente, ecco la storia del bandito e del (mancato) rapimento dell’amata farsi racconto personale, confessione, ritratto di un cuore messo a nudo che a sua volta ne chiama in causa altri, ognuno con il proprio groviglio di passioni e di pulsioni, tutti irretiti nella ragnatela fatale. Un’arcata unica, un impasto senza grumi, quello che Mariotti scolpiva con finissimo scalpello.
Una serata di grazia che non sarebbe stata tale se non avesse trovato degni comprimari nei solisti; ognuno portatore della sua propria cifra identitaria, eppure tutti straordinariamente affini nel guardare ad un comune orizzonte di intenti. Era un Ernani malinconico e penetrante, tormentato nelle ragioni del suo dire, quello tratteggiato da Piero Pretti al debutto nel ruolo. E a proposito di debutti, ricorderemo a lungo quello di Eleonora Buratto qui a Parma, dapprima autorevole petalo del quadrifoglio chiamato ad interpretare il Reqiuem e, qui straordinaria cesellatrice di un’Elvira come non ci capitava di ascoltare da molto tempo: vocalità morbidissima, tecnica impeccabile a regalare brividi sia nella zona grave che in quella acuta, naturalezza di emissione che le permette di punteggiare con aristocratica espressività ogni dettaglio di una scrittura a dir poco insidiosa. Quanto ad espressività, poi, ha pochi rivali Vladimir Stoyanov, un don Carlo tutto ombre e frasi a fior di labbro, potente ed attanagliato da oscuri rovelli. Torreggiante. A completare il quartetto di eccellenze, Roberto Tagliavini, un Silva dal nobile accento e dal magnifico piglio. In barba a distanziamenti, restrizioni, staticità di un’opera senza scene. Tornare a casa, al Regio finalmente, non poteva avere un sapore più intenso.