Riproposto per l’inaugurazione della stagione un allestimento risalente ai primi anni duemila
Per il primo titolo della stagione operistica 2020 al Teatro Regio di Parma, viene proposta “Turandot”, l’ultima opera di Giacomo Puccini andata in scena alla Scala di Milano per la prima volta nel 1926. Per questo titolo di grande richiamo popolare, il teatro parmigiano opta per un allestimento a cura di Giuseppe Frigeni risalente ai primi anni 2000, cosa che per correttezza andrebbe specificata nei programmi di sala, e coprodotto insieme ai teatri di Modena e Piacenza.
Si tratta di uno spettacolo assolutamente antiteatrale in cui tutto è risolto per rimandi simbolici. Qualsiasi accenno di naturalismo è bandito per privilegiare una lettura puramente simbolica, fatta di gesti e pose calibrate che accennano e rimandano alle situazioni senza mai creare un’azione scenica. Il tutto incastonato in una scenografia scura con nere quinte mobili che si aprono rivelando un fondale luminoso da cui appaiono i personaggi. Una scalinata e alcuni elementi lignei laterali completano un luogo scenico fuori dal tempo e forse dalla realtà, in cui la vicenda di Turandot viene mimata più che vissuta, disposta più che agita. Il coro stesso, elemento fondamentale e onnipresente nell’opera, è relegato ad essere una macchia scura e immobile ai due lati del palco, senza mai entrare nel vivo dell’azione. Anche i cantanti sono per lo più immobili e ogni azione è affidata ai movimenti lenti e calibrati di dieci mimi, che, con grande perizia scenica, risolvono tutte le situazioni dello spettacolo. I costumi di Amélie Haas rimandano ad un oriente vago di stampo nipponico. Il tutto ricorda certamente qualche lavoro di Robert Wilson, per la staticità delle pose e la ieraticità dei movimenti, senza però raggiungere la perfezione e l’estetica dell’artista visuale statunitense.
Lo spettacolo di Giuseppe Frigeni ha comunque un certo fascino e alcune ottime idee, in particolare nel primo quadro del secondo atto in cui i tre ministri sono intenti al gioco del go o della dama, invero in questo caso in modo molto mobile e quasi clownesco; oppure nel finale in cui la scalinata con Turandot e Calaf ormai destinati all’amore si chiude sul corpo della sfortunata Liù, quasi a simboleggiare un repentino quanto cinico oblio del suo sacrificio. Altre volte invece, a dispetto dell’intento simbolista, risulta abbastanza convenzionale, come nella scena dell’apparizione dell’imperatore oppure nella prima apparizione della principessa Turandot. Nel complesso comunque, anche considerando che si tratta della ripresa di uno spettacolo di parecchi anni fa, una messa in scena funzionale e orchestrata con coerenza all’idea dall’inizio alla fine.
Dal punto di vista musicale abbiamo ascoltato un cast (il primo) omogeneo e professionale, nel quale spicca la bella prova del tenore uruguayano Carlo Ventre che, seppur non maestro nel fraseggio e scenicamente impacciato in questa messa in scena, ha sfoggiato una voce saldissima e svettante negli acuti ricevendo una vera ovazione dopo il “Nessun Dorma”. Molto applaudita nel finale anche la Liù di Vittoria Yeo, che ha cantato con grande partecipazione comunicativa e una voce calibrata, intensa e dotata di ottime mezze voci e sfumati accattivanti. Il soprano sloveno Rebeka Lokar impersonava Turandot con voce salda e timbrata, regalandoci una bella prova. Grande esperienza, voce calda e omogenea per il Timur del basso Giacomo Prestia. Sugli scudi infine i tre ministri Fabio Previati (Ping), Roberto Covatta (Pang), Matteo Mezzaro (Pong), che, scenicamente affiatati, hanno ottimamente cantato e recitato. Buona la direzione di Valerio Galli, che ha diretto la “Filarmonica dell’opera italiana Bruno Bartoletti” con attenzione al rapporto fra buca e palcoscenico e con una particolare attenzione alle sonorità “finto orientali” previste dalla partitura.
A fine serata grandi applausi per tutti.
R. Malesci (17/01/2020)